Giornalista

Questo contributo al ciclo Inchieste Oggi di Fondazione Feltrinelli è tratto dal libro Victor Serge, Occhi aperti. Sporcarsi le mani con la verità, Fondazione G. Feltrinelli, Milano, 2020. L’e-book è scaricabile a questo link.


Sull’etica e obiettività del giornalismo si sono costruite intere trasmissioni, manuali, master. Professioni. Ma come spesso accade la teoria siede da una parte e la pratica dall’altra. Nei convegni si sentono spesso ospiti illustri parlare di watchdog journalism, un giornalismo capace di essere “cane da guardia del potere”. Addirittura si scomodano i direttori di grandi testate per elogiare i cronisti in prima linea che, nonostante il precariato, mettono a repentaglio la propria incolumità nell’esercitare il diritto di cronaca. Cronisti che con pochi mezzi a disposizione fanno quella scelta, come direbbe lo scrittore e rivoluzionario russo Victor Serge, “tra la cecità e la lucidità”. Eppure, devo ancora conoscerla una redazione che offre contratto e stipendio dignitosi per fare inchiesta.

Le eccezioni esistono, possono esistere se vi è la volontà (e i soldi), ma nella realtà dei fatti il bivio è il seguente: il posto fisso al ritmo di copia e incolla dietro una scrivania, non una domanda di più né una marchetta in meno; o una vita precaria senza padroni e altrettante certezze a cui la contemporaneità ha affibbiato l’appellativo di freelance. Di libero questa seconda via ha ben poco, tra pagamenti dai tempi incerti, rimborsi spese privi di garanzie e proposte di collaborazione senza risposta. Un giornalismo precario, non degnamente retribuito, non può essere libero. Perché ti troverai sempre di fronte a scelte che incidono sulla qualità del tuo lavoro: oggi metto la benzina nella macchina per raggiungere i luoghi delle mie ricerche o faccio la ricarica telefonica per fissare gli appuntamenti?

Mi chiedo come si possano creare nuove classi di cronisti abili e attenti, che abbiano “il coraggio della lucidità” di Serge, se il sostegno è solo a parole. Il giornalismo è un lavoro e l’affitto, l’idraulico o il supermercato non lo si paga con i complimenti. Non deve essere una missione, ma un impiego svolto nel massimo rispetto dei suoi diritti e doveri. Quando mancano i soldi per pagare le bollette e sei all’ennesimo curriculum respinto (“Lei è brava, la giornalista ideale, ma sa, c’è crisi, non posso offrirle neanche uno stage da 400 euro al mese“) voglio vedervi a portare avanti un impegno di verità sfidando da soli il potente di turno con la parola, unica arma. Perché, parafrasando Serge nella lettera del 1936 ad André Gide, di “mandarinati letterari mirabilmente organizzati, abbondantemente retribuiti, benpensanti come di dovere” ce ne sono fin troppi, eccome. E sono il male della professione, già amputata a colpi di clickbait e impoverita dalla rincorsa alle visualizzazioni. Chi studia prima di scrivere? È già tanto se si verificano le fonti. La rapidità sembra essere il primo valore.

Cedere al ricatto è facile: taci, non creare problemi e avrai il tuo posto.

Non è di questo che una società attenta e civile ha bisogno, bensì di domande scomode ogni volta che è necessario. Di un giornalismo approfondito, che vada sui posti, parli con le persone, investighi la sofferenza, usi i termini appropriati, interroghi chi detiene l’autorità. Basterebbe così poco. Riconosciamo tutti che, per citare Pippo Fava, direttore de «I Siciliani» ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984 a Catania,

“un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.

Allora perché non si investe sugli entusiasti della professione, capaci di tirare fuori grandi notizie da apparentemente piccole storie? Capaci anche di sopportare turni non turni con reperibilità “accaventiquattro”, niente malattia, ferie queste sconosciute, i permessi cosa sono, figuriamoci il solo pensiero di maternità. Capaci di sopportare l’isolamento nel far fronte a querele pretestuose e avvertimenti.

Sapete quanti giornalisti e blogger sono stati minacciati nel 2019? Secondo i dati dell’osservatorio Ossigeno per l’informazione 472, il 77% sono uomini e il 23% donne. Nel primo trimestre del 2020 le intimidazioni sono state 123, quelle accertate tra aprile e giugno dello stesso anno 44. “Che prezzo paga per il sacrificio della sua coscienza che si pretese da lui e che egli ebbe la debolezza di accettare?”, domanda Serge nel suo scritto al Nobel francese. Un caro prezzo, dico umilmente io: in denaro, gli avvocati – per difendersi in tribunale dalle accuse temerarie di politici e mafiosi – costano; in salute e serenità, tua e dei tuoi familiari. Troppo spesso a essere colpiti sono giornalisti precari, freelance appunto, retribuiti una miseria: è questa la nuova Siberia delle penne curiose e inquiete. Vivono in zone periferiche del Paese, isolati rispetto alla centralità delle grandi testate. Come Sedriano, il primo comune lombardo sciolto per mafia, 12mila abitanti alle porte di Milano. A prima vista un paesino simile a tanti in pianura padana, dove il ruolo da protagonista nelle notizie prima dell’arresto del sindaco (poi assolto) era occupato da recite scolastiche, qualche sagra. E se la cronaca nera avesse voluto chiudere la pagina col botto, allora avrebbe fatto capolino un servizio sugli automobilisti sanzionati per eccesso di velocità.

Quando ho iniziato la mia inchiesta sull’infiltrazione della ‘ndrangheta, nel 2011, avevo 21 anni e un tesserino da giornalista pubblicista in tasca ottenuto macinando chilometri di interviste. Senza contratto, pagata cinque euro ad articolo. Lordi.

Lavoravo per le cronache locali e avrei voluto tornare in Sicilia, mia terra d’origine, per occuparmi di mafia. Tuttavia c’era un richiamo che non riuscivo a silenziare: capire cosa stesse accadendo alla Lombardia, dove sono nata e cresciuta, presa d’assalto dalla cosche nella totale indifferenza. In televisione non se ne parlava, ai quotidiani nazionali sembrava non interessare: la colonizzazione della criminalità organizzata calabrese al nord, come si dice in gergo, “non faceva notizia”. O forse non si osava chiedere. Poi c’erano i colleghi del territorio: alcuni in silenzio permanente (c’è chi per paura sceglie la cecità, oggi come durante il consolidamento dello stalinismo, non li biasimo ma almeno facciano donazioni a testate indipendenti); e altri che sulle loro pagine tuonavano: la mafia è un problema del sud, chi scrive che esiste in Lombardia rovina la buona nomea della nostra regione. Mi definivano “visionaria”.

Era così tangibile la gravità di cosa stava accadendo nell’hinterland meneghino. Appalti assegnati a parenti di boss, i quali non avevano più bisogno di bussare alle porte dei consigli comunali perché in quelle aule avevano già chi occupava un posto a nome loro. Amministratori pubblici assoggettati al mafioso di turno, imprenditori compiacenti, dirigenti collusi. I summit organizzati in ristoranti e pizzerie. Nel frattempo, per me e la mia redazione dell’epoca, Altomilanese, fioccavano denunce per diffamazione (da cui sono sempre stata assolta), richieste di risarcimento a più zeri e, non c’è da andarne fieri ma da metterlo in conto, aggressioni, danneggiamenti, minacce, proiettili in busta.

Bastava osservare, domandare e informare: cos’altro viene chiesto a un giornalista, se non questo? “Vivere ad occhi aperti”, direbbe Victor Serge, “parlare per molti altri privi di voce”, avere “il coraggio di questa lucidità”. Di nuovo: a che prezzo? Un prezzo che, vi assicuro, un giornalista che alla cecità sceglie la lucidità è disposto a pagare. Ma non deve essere lasciato solo, bensì tutelato, sostenuto e pagato. Contrattualizzato. Puro anticonformismo, quasi eresia. La prima a beneficiarne sarebbe proprio la comunità, siamo noi.


Foto di copertina di Thomas Charters / Unsplash

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