Le patologie e le sfide del nostro tempo trovano una matrice comune nella tendenza alla dismisura, alla illimitatezza: tendenza ontologicamente e antropologicamente costitutiva dell’umano, se è vero che già i greci la conoscevano e la chiamavano hybris, ma libera di scatenarsi a partire dalla modernità e da quella che vorrei chiamare la vocazione prometeica del soggetto moderno. Tesi ardita, sia detto per inciso, in quanto osa sfidare ogni retorica relativistica, oggi alla moda, e ricondurre a un’unica e universale “qualità” (la hybris appunto) la natura stessa dell’umano, vedendone allo stesso tempo i molteplici esiti e le pericolose distorsioni.
È bene precisare, infatti, che, tenuta sotto controllo dalla struttura olistica della polis greca e delle società premoderne, la hybris degenera invece facilmente nelle socieà che hanno eretto l’individualismo a valore e diventa la fonte primaria della rivalità e della violenza.
“Madre di tutte le minacce”, la nostra dismisura è in primo luogo alla radice di quel fenomeno moltiplicatore di competitività e di violenza che è il capitalismo speculativo, la cui logica predatoria è oggi più che mai in grado di invadere e colonizzare tutte le sfere dell’esistenza.
Rivalità e violenza reciproca tra gli esseri umani e dominio della natura sono gli effetti di un sistema produttivo che è alimentato e sostenuto da una precisa visione del mondo – il neoliberalismo – che, a dispetto delle ripetute litanie sulla fine delle ideologie, è in realtà l’ideo logia più potente di ogni altra (fondata su disvalori come la legittimazione dell’avidità, l’illimitata libertà del mercato, la superfluità della società), proprio in quanto mascherata da una pretesa di naturalità o dalla coattiva presunzione del TINA/There Is No Alter-native.
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Il problema, mi preme far notare, non sta nel nostro egoismo e individualismo, né nel perseguimento dell’utile in quanto tale. Il problema sta nell’unilaterale esclusività di queste dimensioni che, alimentate dalla hybris, sono diventate progressivamente l’unica miserabile realtà, che ha finito per oscurare “altri moventi”, come li chiamerebbe Amartya Sen, altre potenzialità dell’umano. La rivalità e il conflitto possono infatti operare come dinamiche vitali nel tessuto relazionale, purché integrino la realtà della cooperazione e della solidarietà; e l’uso delle risorse naturali è evidentemente legittimo, purché non diventi saccheggio illimitato, facendoci dimenticare che della natura noi siamo parte e che le risorse non sono infinite.
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Riscaldamento climatico e perdita della biodiversità, inquinamento ed erosione delle risorse sono infatti tra le manifestazioni sempre più eclatanti del nostro ingresso nell’Antropocene: una nuova era in cui l’agire umano ha raggiunto l’assoluta priorità, l’apice della potenza, rovesciandosi però, allo stesso tempo, in possibile autodistruzione.
Lo aveva già intuito Hans Jonas quando, nella seconda metà del Novecento, denunciava il paradosso di un’umanità divenuta vittima del suo stesso potere, perchè accecata dalla hybris prometeica, e pericolosamente avviata verso la “perdita del mondo”. Eppure, solo ora la crisi ecologica, sepolta per decenni sotto strati ripetuti di indifferenza, cecità e menzogna, sembra esplodere, manifestandosi inevitabilmente in fenomeni estremi e forse irreparabili. La priorità, che è doveroso assegnarle, è data dal fatto che essa minaccia la nostra stessa sopravvivenza:
“Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla Terra” era il meta-imperativo in cui Jonas sintetizzava la necessità di questa priorità, cui si aggiunge oggi l’urgenza di individuare mezzi e strategie per riattivare quell’omeostasi della Terra senza la quale, appunto, non c’è vita.
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Sebbene, di fronte al desolante scenario attuale, tutto questo possa apparire quasi un miraggio, siamo però ben oltre le vaghe promesse dell’utopia e confortati dal constatare che, purché lo vogliamo, disponiamo in effetti non solo di valori, ma di pratiche e strumenti concreti, atti a costruire un mondo migliore.
Tuttavia, la domanda è: lo vogliamo davvero?
E con questa domanda entriamo in un terreno più oscuro e scivoloso, che riguarda la complessità della nostra psiche, di cui mi limito solo a focalizzare alcuni aspetti: come l’ambiguità dei nostri desideri, che ci spinge ad autoingannarci sulla realtà delle minacce come quando, approfittando della sua inafferrabilità, neghiamo il cambiamento climatico, perché non vogliamo pagare il prezzo delle sue conseguenze e rinunciare ai nostri privilegi; come la debolezza della volontà, che affonda le proprie radici nella akrasia dei greci e legittima oggi la nostra tendenza a rifugiarci nella passività e nell’impotenza di fronte a nuove, “impensabili” forme di pericolo; o, ancora, come quella scissione tra fare e immaginare, tra sapere e sentire, nella quale Hans Jonas e Günther Anders avevano riconosciuto la patologia squisitamente prometeica del mondo contemporaneo. Scissione che ci rende ciechi sugli effetti del nostro stesso agire e inibisce la partecipazione emotiva a eventi che pure razionalmente conosciamo e riconosciamo. Sono zone di resistenza nelle quali il soggetto dell’età globale tende a rifugiarsi per sottrarsi alle proprie responsabilità, nel migliore dei casi rimuovendo inconsciamente le proprie paure, nel peggiore proiettandole su capri espiatori sui quali far ricadere la colpa delle proprie insostenibili insicurezze (basti pensare alla figura del migrante come catalizzatore delle paure globali e come oggetto del blaming collettivo). Sono dunque meccanismi di difesa che spiegano, almeno in parte, la nostra complicità, tanto più pericolosa quanto più inintenzionale, con i grandi poteri, lasciati troppo a lungo liberi di saccheggiare la natura e ampliare l’abisso delle disuguaglianze; meccanismi insidiosi che finiscono per legittimare i diktat della shock economy camuffati da una presunta necessità, e la fredda tirannia del neoliberalismo.
Dobbiamo allora smontare alla radice questa nostra complicità, attivando tutte le strategie possibili che consentano una metamorfosi del soggetto, un cambiamento radicale – sul piano antropologico, culturale, morale – che sia all’altezza della novità e complessità delle sfide da affrontare. E ciò vuol dire, in prima istanza, addentrarsi nella dinamica delle nostre motivazioni, scavando più in profondità di quanto si sia fatto finora in quella che ne è la sorgente per eccellenza: vale a dire nelle nostre passioni, cominciando per esempio col liberarle definitivamente da una ormai obsoleta identificazione con l’irrazionalità, o dalla unilaterale visione della tradizione liberale moderna, che le riduce al solo egoismo.
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Per concludere, vorrei suggerire che una società convivialista non potrà che nascere dal prevalere delle passioni empatiche, quale segno di un’auspicabile trasformazione radicale del soggetto di fronte all’urgenza e all’entità delle sfide globali; ma sarà anche quella che a sua volta saprà darsi norme, strutture e istituzioni atte a promuoverle e a “coltivarle”, per dirla con Martha Nussbaum, nella consapevolezza della fragilità delle nostre conquiste e con la lungimiranza che guarda al futuro.
Sulla capacità di coniugare questi due percorsi, promuovendo la reciproca interazione tra metamorfosi dei soggetti e cambiamento della struttura sociale e politica, si gioca oggi la scommessa relativa alla possibilità di costruire un mondo migliore.
Il brano è tratto dall’Introduzione a L’arte di vivere insieme scritta dalla filosofa Elena Pulcini. In occasione della giornata mondiale della Terra, vogliamo ricordare la sua attività di ricerca, nutrita di impegno civile e autentica vocazione a prendersi cura del mondo.
Photo di copertina di Ben White / Unsplash