Non ho mai pensato di appartenere a una “seconda generazione”. Non è una categoria che sento mia e nessuno mi ha mai etichettato in questo modo.
Fornisco qualche dettaglio. Sono nato a Dakar, in Senegal, nel 1985. Sono arrivato in Italia quando avevo 6 anni, con mia madre e mia sorella, grazie a un ricongiungimento familiare. Mio padre era già giunto in Italia nel 1988. Il mio percorso di studi, dalle scuole elementari alla laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2009 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, all’Esame di Stato di avvocato presso la Corte d’Appello di Milano nell’ottobre 2012, si è snodato tutto in Italia.
Mi sento senegalese: è il Paese della mia famiglia e dove sono nato, con il quale ho un legame affettivo mai spentosi, anzi, sempre vivo e attuale anche mediante progetti di cooperazione allo sviluppo in campo sanitario in favore del Senegal con la Onlus da me fondata nel 2014.
Mi sento italiano: ho richiesto e ottenuto la cittadinanza una volta diventato maggiorenne.
Mi sento lodigiano, perché la comunità del Comune in cui vivo dal 1991, Casalpusterlengo, è quella che frequento nel quotidiano. Mi sento anche ambrosiano, del resto, essendo Milano la metropoli dove esercito la mia libera professione forense di avvocato e dove trascorro 12 ore ogni giorno durante la settimana lavorativa. Mi sento, infine, con orgoglio, europeo e cittadino del mondo.
L’identità è una questione complessa. Posso riconoscermi in più “identità”. Posso sentire di appartenere a più comunità. Non credo sia una situazione solo di chi è nato in un altro Paese, ma credo che sia una situazione di tutti.
La nostra identità è definita dalle innumerevoli reti e comunità di cui facciamo parte.
Ottenere la cittadinanza italiana (e con questa quella dell’Unione Europea) ha il significato per me di fare parte di una Comunità importante, che mi tutela e per la quale mi impegno, perché ne ho a cuore il futuro.
La legge sulla cittadinanza italiana, basata come è ora sullo ius sanguinis, ha l’impostazione di un Paese di emigrazione: il suo scopo è stato – ed è – quello di mantenere un legame con i tanti italiani emigrati e i loro discendenti sparsi per il mondo. Comprensibile e giusto, per la storia di questo Paese.
Ma da decenni l’Italia è anche un Paese di immigrazione, che però si rifiuta di riconoscerlo. Questa miopia anacronistica rischia di fare danni gravissimi.
Il messaggio che trasmette la legge attualmente in vigore dal 1992 è: la nostra comunità preferisce includere cittadini che sono sempre vissuti dall’altra parte del mondo piuttosto che la persona che vive, studia, lavora e fa parte concretamente del tessuto sociale e produttivo italiano.
Tutto ciò crea una sorta di discriminazione, e non può che portare a esclusione e marginalizzazione, al disinteresse verso la vita pubblica.
Disinteresse che purtroppo è condiviso anche da molti che hanno la cittadinanza italiana sin dalla nascita. È cosa tristemente nota la disaffezione verso la politica, soprattutto tra le nuove generazioni, senza distinzione di nazionalità.
Quello che si rende necessario non è solo una riforma che estenda i diritti connessi alla cittadinanza e ne semplifichi l’accesso da parte di chi è immigrato o figlio di immigrati (riforma che è necessaria e prenderebbe atto del mutato contesto della società in cui viviamo ora rispetto al 1992), ma un più ambizioso progetto di ampio respiro di riforma della cittadinanza che possa ridare valore a questa parola, “cittadinanza”.
Cittadinanza significa comunità. Significa vitalità. Significa diritti, ma anche doveri; significa impegno, fatica a volte, ma che poi vengono sempre ripagati. Significa solidarietà. Significa costruire qualcosa insieme. E qualcosa che duri.
Stiamo affrontando un periodo molto difficile della nostra storia: una crisi pandemica e anche economica fortissima, che colpisce un Paese e un continente anziani, un Paese e un continente già afflitti da un’economia stagnante e da una forte sfiducia verso le istituzioni, da una crisi della rappresentanza che mina agli ingranaggi della democrazia per come la conosciamo.
È in situazioni così critiche che si possono – e si devono anzi – trovare soluzioni innovative. Cambi di prospettiva. Investimento sul futuro. “When in trouble, go big” è l’espressione che Ben Smith, un opinionista americano, ha usato per sintetizzare la strategia di Barack Obama, sicuramente il riferimento politico più importante per me e credo per la mia generazione. Di fronte alle difficoltà, rilanciare.
Sono convinto che il rilancio dell’Italia, e più in generale dell’Europa come disegnato dai Padri fondatori, passi soprattutto da qui. Da una riforma che riesca a riportare la cittadinanza a quello che dovrebbe essere: – per usare le bellissime parole della Prof.ssa Anna Granata – “un progetto, una tensione, una prospettiva condivisa con tutti coloro che in questo Paese riescono ancora a immaginare un futuro”.
In primis, con le nuove generazioni di questo Paese.
Non mi percepisco come “straniero figlio di stranieri” bensì come nuovo italiano. Sottolinea il cambio di prospettiva: conoscere e valorizzare il desiderio di protagonismo e la positività che ci muove, descriverci nella nostra varietà e complessità, fuggendo la tentazione di renderci prigionieri di uno stereotipo.
Ecco, non chiamateci “seconde generazioni”: non siamo secondi a qualcuno. Chiamateci “nuove generazioni”. A queste sento di appartenere!