Ricercatrice in Comunicazione presso Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Docente

“Un quartiere, per essere considerato tale, deve anche trovare il necessario amalgama fra la gente. Perché ci si senta sempre più di Brecce Bianche, o di Montedago Sud (come qualcuno preferisce) […] occorre dare un “cuore” vivo al quartiere e oggi  […] si può andare alla progettazione della parte centrale come collegamento fra le varie zone e costruire un fattore aggregante fra la gente”

(Brecce Bianche: un quartiere da riqualificare , in “La Voce di Ancona”, mensile del Partito Comunista Italiano, numero 8-9, dicembre 1984)


Le parole di Lorenzo Lucesoli, qui riportate, sono state scritte a due anni della frana del 1982 – che colpì i quartieri a nord della città e costrinse all’evacuazione 3.661 persone – nel tentativo di tenere le fila di una riflessione complessiva su Ancona: l’emergenza abitativa generata dalla frana e il progetto di costruzione dei “quartieri nuovi” nella zona sud avevano dato vita a un’area di “palazzi” che avrebbe dovuto restituire alle città una nuova qualità dell’abitare e, allo stesso tempo, alleggerire il traffico dei mezzi pesanti da Ancona Nord-Torrette.

Q1, Q2, e Q3: “i quartieri nuovi”, così chiamati ancora a distanza di quasi quarant’anni dalla loro realizzazione, hanno rappresentato per Ancona quell’utopia di nuovo spazio urbano che soddisfacesse le esigenze di vita della nuova classe media, composta prevalentemente di lavoratori dipendenti e piccoli artigiani e che sognava un abitare diverso da quello che aveva conosciuto negli storici quartieri, oramai deteriorati, della vecchia città dorica.

La questione dello sviluppo della città a sud non era scontata e divideva l’opinione pubblica. Da un lato, il centro sinistra della Democrazia Cristiana e del Partito Repubblicano – partito ancora capace di pesare e di esprimere dei sindaci nell’anconetano  – puntava verso nord e, dall’altro, la sinistra dei comunisti, prima forza politica in città ma ancora esclusa dall’amministrazione, sognava enormi bretelle, assi e ponti sopraelevati per lo sviluppo della città in direzione Aspio, zona allora completamente agricola adagiata lungo gli argini dell’omonimo fiumiciattolo. Una partecipazione dei socialisti alla giunta di centro sinistra aveva reso possibile l’avvio di quest’ultimo piano di rinnovamento: le case sarebbero state solo l’inizio, poi sarebbe venuta l’università, gli uffici delle amministrazioni, aree di servizi e attrezzate per aziende, un centro di interscambio merci ecc., in sostanza un progetto di crescita apparentemente inarrestabile.

Il progetto dei “quartieri nuovi” aveva qualcosa dello spirito del pioniere che conquista un nuovo territorio. I primi insediamenti si inserivano in una zona essenzialmente agricola che si apriva fra un colle dal nome ambizioso, il Monte Dago – o più anticamente Monte D’Ago – e la frazione collinare di Varano. Questa zona, addirittura meta di villeggiatura agli inizi del Novecento, aveva negli anni Settanta un qualcosa del “piccolo mondo antico”. Se si osservano le foto zenitali conservate negli archivi del Comune di Ancona si ha la conferma di questa impressione: una distesa di campagna da cui emergono i nuovi insediamenti e un’unica traccia di palazzi all’epoca già presente, cioè i due complessi IACP di via Brecce Bianche e di via Maestri del Lavoro, separati fra loro e isolati rispetto alla città.

I cantieri dei nuovi palazzi del Q1 furono gestiti da cooperative. Il primo palazzo ad essere costruito, in via Ginelli numero 69, era la rappresentazione dell’utopia della sinistra: la cooperativa costruttrice, formata dagli inquilini, si chiamava “Nuova Comune” ed è tutt’ora la proprietaria dello stabile, appartamenti inclusi. La gestione del palazzo era comunitaria, un comitato di inquilini gestiva il verde pubblico e una “sala comune” per le riunioni. Un sogno dal sapore socialista che però non venne esteso a tutto il quartiere e in fondo neanche a tutta la via.

Il progetto di questa nuova Ancona aperta a sud venne accelerato, come accennato, dalla tragedia della frana del 12 dicembre 1982. Data la ricostruzione lunga e problematica, andata avanti per più di trent’anni, a “quelli della Frana” vennero dati incentivi per la stabilizzazione nei “quartieri nuovi”. Alcuni degli elementi che si iniziavano a profilare nei primi anni Ottanta, lasciarono un marchio in questa parte di città mai più eliminato. La speculazione edilizia e la fretta di costruire per i ricollocamenti degli sfollati della frana diedero infatti un brusco impulso alla crescita. Questa si sarebbe data in modo disordinato e disorganico, soprattutto nel suo respiro urbanistico. La crisi economica, il fallimento e la bancarotta di alcune cooperative edili, la corruzione dilagante tra amministrazione pubblica e costruttori e anche, se vogliamo, la parabola declinante della sinistra e del PCI incapace di esprimere un nuovo progetto di città, avrebbe compromesso definitivamente quel progetto utopistico dei “quartieri nuovi”. Non dimentichiamoci infatti che stiamo parlando degli anni Ottanta. A detta degli storici abitanti, il risultato di questa crisi progettuale diede il seguente risultato, percepibile solo attraversando le strade della zona: il Q1, fu il frutto di interventi urbanistici più solidi e organici perché progettati da tempo, il Q2, in cui maggiore spazio ebbe la speculazione edilizia, ne uscì disorganico e frammentato e, infine, il Q3 nato sugli errori precedenti venne dotato di un disegno preciso e uniforme, con villette a schiera e palazzi di maggior pregio, che però fecero lievitare il prezzo del mercato immobiliare. L’ambizioso progetto iniziale quindi venne realizzato a metà.

E attorno alle case? Una costellazione di strutture non finite, vuote e di strade incompiute è stato il paesaggio prevalente per alcune generazioni di adolescenti. Solo di recente il vuoto è stato riempito, colmato però dallo sviluppo di una grande area di centri commerciali ammassati e impersonali. Per circa vent’anni sono mancati i servizi, i trasporti e qualunque cosa che riuscisse a dare un’identità a un quartiere nato come spazio per il “nuovo abitare” e trasformatosi, invece, in un enorme dormitorio. Con il sottofondo di un brusio di malcontento degli abitanti, che però hanno saputo dare poco al loro quartiere.

Il cuore di Brecce Bianche, di cui parlava il comunista Lucesoli, non ha mai veramente iniziato a battere. E, inoltre, la costruzione di Ancona Sud non ha risolto nessuno dei problemi per i quali era nato il progetto: il mancato rilancio industriale e il traffico di camion in uscita dal porto in direzione del casello di Ancona Nord, di cui era vittima il quartiere di Torrette, continuano ad essere una patata bollente fra le mani delle varie amministrazioni comunali che si sono succedute.

A distanza di anni verrebbe da chiedersi perché l’obiettivo di costruire un’area abitativa che non fosse soltanto un dormitorio non venne centrato. Che fine ha fatto quel fattore aggregante tanto ricercato agli inizi? Occuparsi della dimensione dell’aggregazione giovanile, una delle questioni più annose della zona, avrebbe potuto essere una strategia utile per dare un’identità al quartiere, ma non venne mai realmente presa in considerazione. A parte le limitate attività dell’oratorio della Chiesa di San Gaspare – curate per alcune brevi stagioni da un amato e odiato Don Mario nel corso degli anni Novanta – la strada, i campetti da calcio pieni di sterpaglie e le gallerie buie dell’Asse attrezzato incompiuto sono stati, dai primi anni Ottanta in avanti, i luoghi principali di incontro degli giovani dei “quartieri nuovi” ma anche di spaccio e di consumo di sostanze stupefacenti.

Potremmo parlare di occasioni mancate. Va detto infatti che diversi sono stati negli anni i tentativi di rendere i quartieri – che nel corso degli anni Novanta erano fra i più popolosi della città – attrattivi e magari anche competitivi rispetto al centro cittadino. Sono però tutti caduti nel nulla. Il vasto impianto sportivo è crollato sotto i colpi dell’incuria e dell’egoismo delle persone che hanno sistematicamente distrutto una struttura che non era stata dotata di una custodia. Per non parlare del famoso “Panettone”, struttura polifunzionale, che ha rincorso usi possibili nell’arco di tutta la storia senza riuscire a raggiungerne una vocazione definitiva. L’università, a oggi uno dei poli scientifici di riferimento della città e del Politecnico delle Marche, non ha nessun ruolo nel quartiere: gli studenti, locali e fuori sede, vengono e se ne vanno velocemente, non portano con sé nulla e nulla gli viene offerto. Il mercato degli affitti per studenti è inesistente, perché nessuno vuole vivere in una zona povera di collegamenti con il resto del mondo e priva di attrattive culturali.

Alle deboli operazioni istituzionali vanno anche aggiunti altri nobili tentativi.

Il più interessante, sotto il profilo del protagonismo dei giovani del quartiere, è del 1992, l’anno della “Casa occupata di via Flavia”, una vecchia casa colonica abbandonata del Q2 e occupata da un collettivo giovanile che da anni si batteva per il diritto dei giovani anconetani ad avere un centro sociale, come quelli di tutte le altre città. “I pirati del Q2” come firmavano alcuni dei volantini promossero diverse iniziative politiche, sociali e culturali di un certo rilievo, ad esempio organizzando uno dei concerti dei bolognesi Isola Posse All Star, crew hip hop da cui sarebbero poi emersi anche i più noti Sud Sound System. Un altro nobile tentativo venne fatto nel 1996 dall’allora assessore con delega alle politiche giovanili Fabio Sturani, poi futuro sindaco, che appoggiò un’iniziativa che proveniva ed era rivolta alle culture giovanili: il “Juice”, rassegna di cultura hip hop che contribuì a ravvivare metri e metri di pareti grigio-cemento con le opere di graffitari provenienti da tutta Europa. Giovani armati di bombolette all’attacco di ogni spazio libero avevano reso il quartiere più bello, anche solo esteticamente. Però dopo quello più nulla.

Il problema dei trasporti e dei collegamenti urbani è stato in parte risolto solo da una decina d’anni. Prima di allora, il centro cittadino era raggiungibile solo con mezzi propri o con l’ormai mitico autobus numero 22 che permetteva a frotte di giovani e adolescenti senza motorino di frequentare la “città” il sabato pomeriggio ma che impiegava all’incirca quarantacinque minuti per raggiungere la piazza e il corso principale del centro, una meta che un’auto raggiungerebbe in soli dieci minuti.

Gli storici abitanti invecchiano e nel quartiere si intravedono nuove giovani famiglie che qui scelgono di stabilirsi perché i prezzi delle case sono favorevoli rispetto ad altre aree della città. In fondo è una zona tranquilla e addormentata che si è rinnovata da sé, per inerzia, le strade incompiute sono state finalmente terminate, la droga, consumata e spacciata, si è spostata altrove e i consumatori di allora, quelli sopravvissuti, sono invecchiati anch’essi. Nel mondo iperconnesso di oggi, l’isolamento dei “nuovi quartieri” naturalmente si percepisce meno; ma se si fa un po’ d’attenzione, si può notare che, all’ingresso di Brecce Bianche, passaggio obbligato per accedere dall’Asse attrezzato ai “quartieri nuovi”, le frequenze radiofoniche si interrompono o vengono disturbate come trent’anni fa e la temperatura media si abbassa sensibilmente. L’immobilismo e l’isolamento, in fondo, aiutano a mantenere salde abitudini e tradizioni.

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