La settimana scorsa le borse europee hanno chiuso in negativo, a seguito delle aspettative di ulteriore rialzo dei tassi di interesse da parte della Banca Centrale europea, e a fare eccezione non è stata certamente Piazza Affari che, complici il crollo di banche ed energetici, in forte ribasso, ha recitato il ruolo di fanalino di coda dei listini europei. La stessa Piazza Affari che la mattina del 26 settembre ha aperto in rialzo, trascinando con sé le altre Borse europee: d’altronde, i risultati che sono andati via via consolidandosi nell’arco della notte non rappresentano una sorpresa, e la perdita di centralità della Lega nella coalizione vincente tranquillizza i più, suggerendo un’impostazione meno aggressiva in tema di politica economica.
Tuttavia, le prime pagine forti (due su tutte quelle del Times, che parla di “governo più a destra dai tempi della seconda guerra mondiale”, e del New York Times che parla di “estrema destra”) che accomunano la maggior parte delle testate internazionali e uno sguardo più dall’alto non fanno presagire niente di buono: c’è quantomeno il rischio che l’evoluzione del contesto politico ed economico spinga lo spread italiano verso l’alto in uno scenario negativo in cui il cambio con il dollaro già ora si attesta ai minimi storici. Un leitmotiv che sembra destinato a durare più che lo spazio di una notte.
Se da un lato è vero che anche questa volta la notte è passata, dall’altro tuttavia i problemi sul tavolo rimangono i medesimi dei giorni e delle settimane scorse, che il passare del tempo non farà che intensificare. Ed è da qui che dovranno ripartire le nuove camere, che si insedieranno a metà ottobre (il 13 ottobre, salvo cambi di programma) e il nuovo esecutivo che dovrebbe giurare entro fine ottobre e che, con tutta probabilità, sarà guidato da Giorgia Meloni.
Quello che abbiamo di fronte, infatti, si prefigura come un autunno davvero complicato. Non mancano le analogie con gli anni Settanta, e in particolare con quanto successe nel 1973. In un mondo per parecchi aspetti lontano anni luce da quello attuale, l’Italia usciva dalla lunga estate del colera, e l’impennata del prezzo del greggio e dei suoi derivati, a seguito della decisione dell’OPEC di sostenere Egitto e Siria nella guerra del Kippur aveva portato rapidamente a una crisi energetica, con l’inflazione oltre quota 10%.
Inflazione in crescita
Oggi stiamo timidamente uscendo dalla più grande pandemia dell’ultimo secolo e i venti di guerra sono tornati a spirare forte in Europa, al pari di quelli di inflazione. Inflazione che ha superato quota 8% in Europa e in Italia, ad agosto, ha toccato addirittura quota 10% in Trentino Alto Adige e in Sicilia. A infiammare la dinamica è il costo dell’energia: secondo l’ufficio statistico dell’Unione europea, infatti, soltanto l’energia incide nell’eurozona di circa 4 punti percentuali di aumento dell’inflazione, seguita da cibo, alcol e tabacco (2 punti percentuali) e servizi (1,6 punti percentuali).
È notizia di questi giorni la bolletta del gas ricevuta dalla Comunità di San Patrignano, che è passata da circa 70 mila euro a poco più di 730 mila euro da agosto 2021 ad agosto 2022.
Un fatto che stupisce a un primo impatto, ma che a pensarci bene non dovrebbe: infatti, il prezzo del gas naturale in Europa è decuplicato in poco più di un anno, passando dai 27 euro a megawattora ai 310 euro di fine agosto (dopo aver toccato anche un massimo storico attorno a 350 euro), per attestarsi negli ultimi giorni nella forchetta tra 170 e 190 euro a megawattora.
Per rendersi conto di questi movimenti è sufficiente scambiare due parole con i commercianti del proprio quartiere: le bollette che l’anno scorso si aggiravano attorno ai 1,500 euro e sono più che triplicate sono oggi la norma.
Una preoccupazione anche per le famiglie, che già da qualche tempo sono alle prese con l’aumento del prezzo del pane, che oggi costa mediamente il 13,5% di più dell’anno scorso in Italia, il 18% se si considerano tutti i Paesi dell’Unione Europea, con picchi che nei Baltici toccano una quota vicina al 30%, e in Ungheria addirittura il 65%. L’aumento del prezzo del pane sconta non soltanto il prezzo dell’energia alle stelle, ma anche l’ invasione russa dell’Ucraina ed il conseguente shock sui mercati globali (Ucraina e Russia sono grandi esportatori di grano, cereali, mais e fertilizzanti).
Un rialzo dei prezzi che seguendo, il rapporto Fragilitalia, ha colpito, fra gli altri, anche la pasta (+25,8% il prezzo di agosto 2022 rispetto ad agosto 2021), i formaggi freschi e i latticini (+16,5%) e la frutta (+18,3%).
La stessa Coldiretti stima in 900 milioni gli euro aggiuntivi che gli italiani dovranno sborsare nel 2022 per portare il pane in tavola, una cifra che il Codacons disaggrega a livello di famiglia; un nucleo di 4 persone, in media, sarà costretto a spendere per pane e cereali 175 euro in più rispetto al 2021.
Il crollo del potere d’acquisto delle famiglie
Venerdì scorso migliaia di ragazzi e ragazze hanno invaso le piazze delle principali città manifestando per l’emergenza climatica, un tema che è già rilevante oggi e non lo diventerà soltanto domani: è un dato di fatto che il caldo record e la siccità abbiano giocato un ruolo nel far schizzare verso l’alto i prezzi dei prodotti alimentari, costringendo gli italiani a consumare meno prodotti e di minore qualità.
Infatti, le famiglie stanno tagliando la quantità di cibo nel carrello e aumentano il ricorso ai discount. La già citata Coldiretti in un recente studio rimarca il forte aumento degli acquisti di cibo low cost: il 18% dei cittadini italiani dichiara di aver ridotto la qualità degli acquisti, mentre un italiano su due confessa di aver tagliato la spesa alimentare come conseguenze del ridotto potere d’acquisto. Dati che sono confermati dall’ultimo rapporto Coop, che rileva un calo del 38% della quota di italiani che acquistano “prodotti bio” e un’avanzata dei cosiddetti “private label”, ovvero quei prodotti che sono realizzati da terzi e venduti con il marchio del supermercato, a un prezzo più basso rispetto agli omologhi realizzati dai produttori più rinomati.
Un avviso ai naviganti arriva anche dal Presidente dell’unione nazionale consumatori, che parla di un vero e proprio “tsunami” e quantifica i rincari dei generi alimentari in circa 600 euro aggiuntivi per una coppia, che diventano 730 euro per una coppia con un figlio e 1,000 euro per una coppia con tre figli. Cifre che suonano come un vero e proprio ammonimento, e che non risparmiano di certo i single, sempre più in difficoltà di fronte ai rincari.
Una famiglia con due figli nel 2022 sarà costretta, a parità di beni e servizi consumati, a spendere 2,800 euro in più rispetto allo scorso anno, se si considerano tutte le uscite, e non soltanto il carrello della spesa.
Infatti, come già accennato, non sono esclusivamente il cibo, l’energia e più in generale i beni di prima necessità a marcare un aumento significativo dei prezzi.
Fra gli altri, a titolo esemplificativo, i prezzi degli asili nido, delle mense scolastiche e dei trasporti locali (metropolitana, autobus) sono in crescita e stanno aumentando in questi giorni in molte città, province e regioni, a causa degli adeguamenti automatici all’inflazione stabiliti dalle norme comunali, provinciali e regionali, che finiscono per colpire soprattutto quelle famiglie delle quali abbiamo parlato fino a ora, alle prese con bollette alte e un carrello della spesa sempre più vuoto.
Le tariffe di molti contratti dei servizi pubblici sono ancorate al FOI (l’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati), lo stesso indice scelto dalla legge per tenere al riparo dall’inflazione le pensioni, il trattamento di fine rapporto (TFR), i titoli pubblici (solo quelli agganciati all’inflazione, come i BTP in Italia), e anche gli affitti, che risultano sempre più cari e, a seguito dell’ultimo aggiornamento, segneranno a breve un più 8,1% se rivalutati al 100% dell’indice di rivalutazione e un più 6% circa se rivalutati al 75%.
Le fluttuazioni del mercato immobiliare
Ed è proprio questo il problema che indaga un recente rapporto Istat, ponendo l’accento sulle emergenze abitative: 2,5 milioni di famiglie (il 10% del totale, quelle con il reddito più basso) spendono per la casa una quota uguale o superiore al 40% del reddito disponibile, mentre 5 milioni di famiglie (il 20% del totale, le più benestanti) destinano per la medesima spesa soltanto il 6,6% del proprio reddito.
Recenti stime della Banca Centrale Europea sottolineano, inoltre, come un aumento di un punto percentuale dei tassi di interesse sui mutui rischi di portare, nel biennio successivo, a una riduzione dei prezzi delle case pari al 5% (un calo che, a detta di altre istituzioni e osservatori, risulta perfino ottimistico). Se è vero che i dati di oggi indicano come il mattone stia tenendo, è sicuramente un fatto del quale tenere conto in prospettiva futura. Un elemento particolarmente importante alla luce del fatto che circa il 75% delle famiglie in Italia risiede in una casa di proprietà, e dunque una riduzione generalizzata dei prezzi delle case andrebbe di pari passo con una diminuzione della ricchezza delle famiglie.
Stando ai dati del rapporto Gli immobili in Italia 2019 redatto dall’Agenzia delle Entrate, il valore delle case possedute da persone fisiche ammonta a poco più di 5,000 miliardi. Una cifra molto simile alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, quantificabile in poco più di 5,000 miliardi e che, nonostante la ridotta capacità di risparmiare degli ultimi anni, è cresciuta del 70% nell’ultimo ventennio e che, in qualche modo, è destinata a diminuire. Su questo margine di sicurezza potranno contare soltanto alcuni, non tutti.
Gli individui che hanno redditi più bassi è molto probabile che potranno contare unicamente su scarsi risparmi, peraltro erosi dall’inflazione, vista la maggiore necessità di tenerli in forma liquida, di modo tale da essere in grado di affrontare eventuali spese impreviste. Inoltre, in media i meno abbienti consumano un paniere di beni che risulta essere più colpito dall’inflazione e, come spiegato chiaramente da un’occasional paper della Banca d’Italia, possono contare su una più scarsa alfabetizzazione finanziaria (variabile che va di pari passo con il livello di istruzione).
Salari congelati da 30 anni e indebitamento
Tutti questi accadimenti avvengono in un contesto come quello italiano che è caratterizzato da salari al palo da più di 30 anni e da contratti di lavoro che rimarcano varie linee di eterogeneità e un diverso livello di protezione dall’inflazione relativi, fra gli altri, al settore di appartenenza, all’area geografica, all’età, al sesso, alle condizioni contrattuali, alla presenza di contratti collettivi nazionali e al tasso di sindacalizzazione
È chiaro che, in mezzo a tutti questi rincari e a queste dinamiche, anche una spesa mensile relativamente bassa per lo sport dei figli nell’ordine di 40/80 euro mensili potrebbe diventare un problema per le famiglie
Secondo un sondaggio proposto da Soisy e ripreso di recente dal Sole 24 Ore, la moda del “buy now, pay later”, un metodo che permette ai consumatori di effettuare acquisti e di pagarli in una data futura, sempre più accettato sulle piattaforme tradizionali, sta spopolando fra i sistemi di pagamento soprattutto nella fascia di età 41-55 anni, che la utilizzano per effettuare, fra le altre, proprio spese legate allo sport, oltre che elettrodomestici.
Un sistema che non è di certo la panacea a tutti i mali e che, per molti versi, somiglia a quello delle carte di credito revolving, nato negli Stati Uniti con l’intento di sostenere i consumi in periodi di vacche magre e molto in voga ai tempi della crisi finanziaria.
Un metodo non particolarmente positivo, che agisce sulla psicologia degli individui, rendendo più contenute le spese e più difficile il monitoraggio.
Un recente report di Mediobanca intitolato “Il grande reset” enfatizza invece come inflazione e situazione economica incerta portino e porteranno i già menzionati risparmi della classe media, in uscita dal risparmio gestito, verso l’acquisto di Buoni del Tesoro, una forma di investimento che ritorna a essere appetibile, ora che le lancette dei rendimenti si sono riposizionate su numeri che non si vedevano da anni ed anni. Il benchmark di riferimento (in negativo) è quello dei 300 punti base di spread raggiunti nel 2018, in pieno governo gialloverde, sperando che non torni ai 600 punti base durante la piena crisi dell’eurozona, ormai 10 anni fa.
Ombre sul debito pubblico
Tema dello spread che ci riporta direttamente a una questione di capitale importanza come la sostenibilità del nostro debito pubblico. Se da un lato è vero che gli accresciuti rendimenti nominali sui titoli di stato aumentano la spesa per interessi, tuttavia questo meccanismo riguarda soltanto i titoli di nuova emissione, mentre l’inflazione riduce il valore di tutti i titoli non indicizzati all’inflazione in circolazione (ovvero, il 90% del totale). Dunque, anche se nel breve periodo l’effetto netto dell’inflazione sul nostro debito pubblico sembra essere positivo (come dimostrato, fra le altre, da recenti stime dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano), l’Italia rimane a oggi il secondo Paese europeo con il più alto rapporto debito/Pil, dietro alla Grecia, che naviga in acque turbolente, sempre più verso un rapporto pari al 200% (ovvero, un debito grande il doppio del proprio Pil).
Debito che, peraltro, non è tutto uguale: nei mesi a venire sarà fondamentale non dimenticarsi, in caso di nuovo e ulteriore deficit, la differenza fra debito buono (quello che finanzia investimenti pubblici mirati e assorbe shock esogeni) e debito cattivo (quello che da sussidi senza un piano industriale).
La speranza è che i politici non si scordino (come spesso accade) di indossare anche le “lenti” dei giovani, di quei “Millennials” e “Generazione Z” che sono coloro che più hanno da perdere da corto-termismo e debito cattivo.
Su questo frangente è altresì chiaro come per l’Italia risulterà dirimente la performance che nei prossimi mesi sarà in grado di offrire il denominatore del sopracitato rapporto: il PIL. Infatti, a parità di spesa per interessi e, dunque, tenendo fermo il numeratore, se il Pil crescerà il rapporto debito/Pil si ridurrà, mentre viceversa se il Pil diminuirà il rapporto debito/Pil non potrà che aumentare.
Uno scenario internazionale difficile
Tuttavia, la mobilitazione parziale annunciata dal Presidente russo Putin spinge il conflitto in Ucraina una nuova fase, accrescendo sempre più imprevedibilità e incertezza che contribuiscono ad aumentare l’aria di recessione che spira sempre più forte da questa sponda dell’Oceano e che riguarda, in particolare modo, Italia e Germania, le quali figurano fra i Paesi più vulnerabili, strette nella morsa della crisi energetica.
Se è vero che l’Ufficio Pubblico di Bilancio e il Fondo Monetario Internazionale hanno presentato stime di crescita del Pil tagliate ma che, ad ora, resistono con cifre positive, è altrettanto vero che l’agenzia di rating Fitch pochi giorni fa ha presentato stime per il 2023 di recessione per l’Europa e per l’Italia. Rischio non scongiurato nemmeno dalle ultime parole di Christine Lagarde che, analizzando le politiche della BCE, ha ammesso l’esistenza del rischio recessione, preoccupazione sulla falsariga di quella contenuta in una nota della Banca Mondiale.
In Europa, l’indice delle Pmi europee (una misura della fiducia degli addetti agli acquisti delle grandi aziende) è sceso ai minimi dagli ultimi 2 anni.
Economia a rischio
Il Presidente dell’Abi Patuelli parla dell’Italia come di un Paese impantanato “fra la scilla del rischio inflazione e la cariddi del rischio recessione”, e il centro studi di Confindustria, nel focus di settembre, pone l’accento sul fatto che, nello scenario peggiore, ovvero quello in cui il prezzo del gas arrivi vicino a quota 300 euro al megawattora (de facto, il livello medio atteso dai futures, già raggiunto e superato nei mesi scorsi) rischierebbero di andare in fumo quasi 600mila posti di lavoro (582mila per la precisione), che coinciderebbero con un calo del Pil pari al 3,2% per il periodo 2022-2023. Dati che fanno il paio con il monito lanciato dal presidente di Confcommercio, Sangalli, che vede 120mila piccole imprese del terziario a rischio da qui alla prima metà del 2023.
In questo scenario, con l’inflazione, il caro vita, il caro bollette, la povertà in aumento, le imprese in difficoltà, il rischio recessione e il debito pubblico alto, è necessario navigare a vista e non c’è spazio per scommesse rischiose sulla falsa riga di molte, costosissime, contenute nei programmi dei partiti. Non ci si deve far trarre in inganno nemmeno dal pacchetto di maxi riforma fiscale da 50 miliardi annunciato dal governo conservatore di Liz Truss in Gran Bretagna, che taglia le tasse ai ricchi nel tentativo di stimolare la crescita, e che come primo risultato ha ottenuto la schizofrenia dei mercati e l’affossamento della sterlina.
Per esempio, in tema di pensioni, un cavallo di battaglia oggetto di molte promesse dei partiti negli ultimi mesi, è necessario prima di tutto trovare le coperture per pagare il dovuto agli attuali pensionati che, grazie aduna vecchia norma del governo Prodi reintrodotta da Draghi nella Manovra finanziaria 2021, hanno diritto alla rivalutazione delle proprie pensioni in base alle fasce di reddito: al 100% dell’indice di rivalutazione se questa è inferiore a 4 volte la minima, al 90% se la pensione varia da 4 a 5 volte la minima, e del 75% se l’assegno è superiore a 5 volte la minima. Rivalutazione che non sarà leggerissima per le casse dello stato, visti i tassi d’inflazione ai quali ci ha abituato il 2022.
Al netto di tutte queste criticità, non è di certo un buon punto di partenza quello segnato dal dato relativo all’astensionismo lo scorso 25 settembre che, come largamente pronosticato nelle scorse settimane dalla maggior parte dei sondaggisti, fa segnare il suo minimo storico alle elezioni politiche, con il 36% di italiani che non si è recato alle urne (16,5 milioni di italiani) e punte addirittura del 50% al Sud Italia. Un dato che ha al suo interno una forte componente di under 30: giovani distanti dalle urne, anche a causa dei fuorisede di tornare nella città di residenza per votare – l’Italia è infatti uno degli ultimi Paesi dell’Unione europea a non prevedere il voto a distanza per i fuorisede.
Serviranno un’altra impostazione e ben altre ricette per riuscire a proseguire spediti sulle scadenze del Pnrr e affrontare quelle che saranno a tutti gli effetti le sfide più difficili degli ultimi decenni.