Contributo dell’area di ricerca Cittadinanza Europea nell’ambito di About a City 2019
Lessico minimo per ripensare la città
Mettersi sui confini per cogliere i bisogni e rispondervi. Analizzare il complesso tema dei beni comuni nelle sue svariate sfaccettature per costruire nuove alleanze fondate sulla corresponsabilità. Puntare sulla cultura e sulle culture, considerandole nella loro pluralità, diversità e negli intrecci che sanno generare.
Questo il percorso suggerito dalla seconda edizione di About a City 2019 per ripensare la città insieme non soltanto a esperti, accademici, ricercatori, politici e policy makers, ma anche insegnanti, attivisti, studenti, artisti, cittadini, perché senza un percorso di apprendimento civico collettivo sulla presente condizione di cittadinanza non si va molto lontani.
Lungo quattro giorni di dibattiti, dialoghi, lecture, sessioni di tavoli di lavoro tematici e performance, sono state discusse le questioni più cogenti relative all’abitare urbano contemporaneo, provando a definire e, in alcuni casi, ri-definire parole vaste come “Mediterraneo”, “diritto”, “usi”, difficili come “fragilità” o “riappropriazione”, evanescenti come “identità”, nuove come “in-comune”, cruciali come “resistenza”, “consapevolezza” e “responsabilità”. Un dizionario minimo costruito e verificato a partire dalle pratiche – resistenti, informali, sovversive, originali, consolidate, necessarie – dei soggetti più diversi ma accomunati da un ruolo attivo nel “fare la città”. Ciò nella convinzione che la città esiste solo in quanto impresa collettiva e che vada dunque ricostruita a partire dalle esperienze dirette di chi la abita, dei bisogni inevasi che esprime, dalle sfide che sa denunciare e cogliere. Non esiste politica senza un radicamento forte nella pratica e non esiste pratica senza un costante sforzo autoriflessivo, capace di costruire senso sulla definizione delle coordinate del tempo che viviamo.
Per questo motivo si è deciso di partire dai margini e dai confini dei territori urbani come luoghi prescelti per mettere a fuoco tutto ciò che resta tagliato fuori, geograficamente, economicamente e socialmente, da condizioni di convivenza sempre più insostenibili, ineguali ed escludenti.
Quel che è emerso dal panel Borderscapes, a cui hanno contribuito il geografo Franco Farinelli, la preside dell’istituto Morano di Caivano (Napoli) Eugenia Carfora, l’etnografo e attivista Michele Lancione e Giorgia Linardi, portavoce italiana della ONG Sea-Watch, è l’inadeguatezza di un certo discorso, sia teorico che pubblico, che considerando i confini (tra ciò che è città e cittadinanza e ciò che non lo è) come barriere statiche ignora il dinamismo che ne fa, invece, laboratori di resistenza, vero carburante, potenzialmente, della politica.
La scuola in una periferia difficile, il “sottomondo” urbano dei reietti a Bucarest, l’attraversamento delle varie frontiere della fortezza Europa, la strenua resistenza sul suo confine ultimo – un tempo varco e oggi gigantesco cimitero – che è il Mediterraneo sono tutte storie che testimoniano quanto poi sottolineato dai discussant Luca Gaeta e Paolo Perulli e da Ash Amin nel dialogo successivo al panel con Alessandro Balducci: dobbiamo ripartire dalla viva materialità delle esperienze nei territori di frontiera (variamente intesi) per pensare soluzioni politiche capaci di sanare le ingiustizie e le fratture sociali ed economiche degli spazi che abitiamo.
Ciò significa non solo includere nel dibattito pubblico specialmente chi non parla la lingua della politica istituzionale e vive una condizione di emarginazione che non consente di prendere parola ma soprattutto di ricostruire una politica, fondata su pratiche di ricerca-azione radicate nella realtà, che sappia parlare con e per coloro i quali sono lasciati indietro, costretti a sopravvivere e reagire in forme scomposte perché tagliati fuori da condizioni di vita dignitose.
Prospettiva tracciata sin dalla sessione di tavoli tematici multistakeholder “Dai bisogni alla città” che, con l’indirizzo del professore di politiche pubbliche Massimo Bricocoli, ha insistito proprio sull’intervenire congiuntamente sulle istanze più trascurate rispetto ad alcuni temi cruciali quali le povertà materiali ed educative, i beni comuni, il turismo sostenibile, le tecnologie abilitanti, lo spazio pubblico, la mobilità come diritto urbano da realizzare, le ecologie in quanto alleanza politica tra uomo e ambiente e una qualità della vita diffusa inclusiva come punto di partenza imprescindibile per realizzare il diritto alla città. Una modalità d’intervento che va a sanare la carne viva ed esposta, i corpi vivi di chi subisce la condizione urbana.
Nella sua keynote lecture, l’architetto Alfredo Brillembourg, dell’Urban Think-Thank di Caracas, ha dimostrato come questo sia concretamente realizzabile: tenendo un’attenzione costante e viva alle periferie del mondo, intese come le aree più fragili nell’ambito di processi di urbanizzazione. Luoghi dove risollevare il potenziale socio-economico, mediante un approccio integrato tra architettura, urbanistica, scienze sociali e visuali per rappresentare, dare voce e supportare istanze e saperi meno praticati ma non meno importanti.
Partire dai pezzi fragili e responsabilizzare i più forti, quelli dotati di potere e risorse per costruire alternative. Costruire, in altre parole, il contesto urbano come un patto di piena corresponsabilità tra le diverse forze sociali che in esso coabitano. In questo senso, i beni comuni hanno rappresentato, nell’ultimo decennio sconvolto dalle conseguenze della crisi economica, un insieme di pratiche eterogenee attraverso cui comunità di cittadini si sono mobilitate per un uso comune degli spazi, sia pubblici sia privati, legati all’esercizio dei diritti fondamentali, nella convinzione che non vi possa essere “diritto alla città” senza un progetto dell’abitare che valorizzi le pratiche d’uso più che i regimi proprietari, la cura delle relazioni e delle interazioni positive, più che le separazioni.
L’uso e l’accesso sono state le chiavi per analizzare la grande questione della rigenerazione con il verde nel quadro dell’alleanza che va ricostruita tra città e natura.
Durante la sessione Naturescapes, durante la quale si sono confrontati alcuni “city makers” di Milano e della Lombardia (associazioni, gruppi di comunità, attivisti etc.) impegnati nella promozione e gestione di spazi verdi inclusivi e alcuni “esperti” sul tema delle Nature Based Solutions dei progetti europei Horizon 2020 URBiNAT e Horizon 2020 CLEVER Cities, si è convenuti su quanto la rigenerazione delle nostre città non possa prescindere non solo dalla dotazione di spazi verdi per una maggiore qualità della vita, ma soprattutto da forme di accesso ad essi che siano il più diffuse, libere, aperte, gratuite possibile, per una fruizione inclusiva ed efficace, quale presupposto per “trasformare in giardino il mondo”, come poi richiamato dal filosofo del paesaggio Massimo Venturi Ferriolo nel corso della passeggiata pubblica attraverso il Parco Biblioteca degli Alberi.
Durante il panel Commonscapes ci si è soffermati a lungo sul contenuto politico di queste pratiche e sulle possibili modalità per formalizzarle/istituzionalizzarle al fine di dare loro continuità nel tempo e ampliare il loro potenziale trasformativo. Ad esempio, attraverso i patti di collaborazione tra cittadini e amministrazioni comunali o le nuove forme di coinvolgimento delle comunità sperimentate dagli investitori privati. Il confronto che è stato costruito tra esperienze assai eterogenee sul tema dei beni comuni si è dimostrato alla prova dei fatti la modalità più fertile per un punto aperto e serio su come stato e amministrazione pubblica, imprese, società civile, università e cultura debbano operare nello spazio urbano per produrre valore pubblico.
Ciò impone innanzitutto, come illustrato nel dialogo tra il filosofo Mikhail Xifaras e la giurista Maria Rosaria Marella approfonditamente soffermatisi sulle mobilitazioni per i beni comuni nei contesti urbani, un ripensamento della proprietà privata in un senso non individualista e funzionale a una maggiore redistribuzione delle risorse per ridurre le disuguaglianze.
In secondo luogo, lo sviluppo di una pratica difficile, peculiare, a tratti elusiva, come è “il fare città”, o, usando il termine oggigiorno più diffuso, del citymaking, che richiede un serio ripensamento delle modalità di azione e dei saperi coinvolti nel fare città.
Saperi esperti e non (quelli degli abitanti delle città), ma ugualmente importanti, da mettere necessariamente e inderogabilmente in comunicazione, per città non più divise, come ha raccontato nella sua lecture lo scrittore Suketu Mehta.
E saperi nuovi, rinnovati, da ritrovare e valorizzare perché la città agisca come un “cervello comune”, un’intelligenza collettiva da mettere il più possibile nelle condizioni di portare avanti processi di co-creazione del contesto urbano stesso, come sottolineato nel dialogo tra Giovanni Semi e Mauro Magatti successivo al panel Culturescapes. Un panel di composizione spiccatamente interculturale e intergenerazionale che ha reso particolarmente vivace il confronto su vecchi e nuovi cornici interpretative e strumenti operativi da mettere all’opera quando si cerca di immaginare le culture urbane di domani.
Culture urbane nuove ma in connessione con quelle che le hanno precedute con le battaglie che hanno condotto in nome di diritti inalienabili e oggi preoccupantemente attuali, come quello alla “casa”, alla “scuola”, al “lavoro”, come espresso con fermezza dal Professor Gabriele Pasqui durante il roundtable Dalla città al desiderio, con Cristina Tajani (Assessore a Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane del Comune di Milano) e Claudio Calvaresi (Avanzi. Sostenibilità per Azioni) seguito a un pomeriggio di dibattiti tra city-makers milanesi al confronto con realtà italiane e internazionali come Napoli, Bologna, Roma, il Salento, Coimbra, Amsterdam, Londra e Parigi, (Forum Milano città policentrica e dei quartieri).
L’interrogativo, centrale e aperto, è come sia possibile una rigenerazione non solo socio-economica, ma culturale e umana degli spazi delle città, ideata a ridosso delle pratiche di vita della totalità degli abitanti delle città, con prioritaria attenzione alle minoranze, non tanto per la città ideale, ma per la città dell’utopia possibile.
La città e le arti
La giornata conclusiva di About a City è stata dedicata ai linguaggi artistici nei contesti urbani, valorizzando percorsi di produzione creativa e di rigenerazione dei luoghi.
I legami di appartenenza si sono rinsaldati e potenziati grazie al radicamento portato dai linguaggi artistici. Una visione nuova di città generata dallo stimolo dell’immaginazione. Uno spostamento dalle solite convenzioni, la diversità che genera complessità e la complessità che genera opportunità. Un possibile nuovo contesto urbano che mette in dialogo più città e linguaggi diversi, gioca con l’identità, con il sentimento di appartenenza e il dialogo possibile nella diversità. Lo spaesamento che diventa bussola e apre all’imprevisto, all’imprevedibile imbattersi in qualcosa di nuovo. Murales che vengono creati dal vivo e sollecitano la memoria della street art, muri di protesta, invasione di colore, messaggi politici, provocazione? La creazione di una statuetta d’argilla per plasmare con le proprie mani gli abitanti di una città ideale.
Che cosa sappiamo delle culture che compongono i nostri quartieri, qual è la memoria dei luoghi, come possiamo trasformare le nostre paure in qualcosa di nuovo e possibile? Forse già sedendoci a giocare una partita di scacchi in cui il paesaggio arretra e muta, al cospetto di un grattacielo. Cosa potremmo fare se fossimo noi a decidere come spostare le pedine e a immaginare uno spazio diverso? Il racconto prosegue e si imprime sui vetri, chi sta scrivendo, un intruso, un vandalo o un saggio poeta? L’arte disorienta, si stratifica in un paesaggio sonoro di armonie e rumori, dove tutte le città sono popolate di familiarità ed estraneità e dove la comunità può esprimere il senso di un’appartenenza più ampia.
I tavoli di lavoro
Di seguito, i report dei tavoli di lavoro:
Partecipanti
Coordinatore: Giordana Ferri – Fondazione Housing Sociale
Approfondimento: Beni comuni e nuove strutture organizzative, leggi l’articolo di Giordana Ferri
Le nostre città stanno vivendo un vivace e fertile ritorno dell’interesse collettivo per il bene comune. Sempre di più le persone si organizzano per migliorare qualche aspetto della loro condizione di vita, e mettono in atto, per raggiungere questo scopo, soluzioni collaborative e sostenibili che non solo migliorano la loro situazione ma determinano un beneficio per tutti e per la città.
Questa tendenza, ormai abbastanza diffusa, vede le persone attive e propositive nella costruzione del proprio contesto abitativo in senso ampio: ne sono alcuni esempi le social street, i community gardens eccetera.
I gruppi che attorno a tali obiettivi si formano sono in grado di gestire servizi e spazi, di presidiare il territorio e di scambiare conoscenze. Queste iniziative non possono ormai più essere considerate né una novità né delle eccezioni. La loro diffusione e l’importanza del loro contributo nella gestione di alcuni beni e servizi le spingono necessariamente, per sopravvivere, a strutturarsi formalmente.
Se per esempio il gruppo ha bisogno di affittare uno spazio, di partecipare a dei progetti più ampi, di accedere a dei finanziamenti o di stipulare un’assicurazione, non può farlo senza essere dotato di un’identità giuridica. Pertanto, un passo quasi inevitabile per questo tipo d’iniziative è quello di costituirsi in una forma giuridica riconosciuta. E qui inizia la vera trasformazione: se da un lato la formalizzazione diventa fondamentale per poter continuare le attività, perché dà accesso alle risorse economiche, alle opportunità progettuali e soprattutto al dialogo con le istituzioni, dall’altro però costituisce, in effetti, non una mera trasformazione ma un cambiamento sostanziale della natura e dell’identità del gruppo.
Questo nuovo assetto infatti non rappresenta solo un passaggio tecnico e formale ma sancisce la costituzione di una nuova forma organizzativa che determina di conseguenza nuove modalità relazionali tra gli appartenenti al gruppo, modalità non sempre conciliabili con lo spirito iniziale dell’iniziativa. Gli strumenti giuridici che abbiamo oggi a disposizione in Italia, anche i meno strutturati, portano necessariamente alla definizione di un assetto gerarchico verticistico molto distante dalla forma originale orizzontale e fluida costituita da gruppi di lavoro, dalla divisione dei compiti e da obiettivi progettuali da raggiungere. Nel momento in cui, infatti, si struttura un organismo direttivo – che tutte le forme giuridiche disponibili prevedono – si genera quasi inevitabilmente una sorta di frattura del gruppo originale: quelli che sono dentro e quelli che restano fuori.
È questo un aspetto ancora irrisolto che probabilmente richiederebbe un intervento normativo diretto e specifico. Ci vorrebbe dunque uno strumento giuridico ad hoc; molti stanno in effetti provando a realizzarlo ma, a ben guardare, il problema della rappresentanza e della gestione orizzontale dei processi decisionali è il nodo del nostro tempo, a tutti i livelli. Al momento, tutti i soggetti che da diverse posizioni si occupano di beni comuni, associazioni, istituzioni pubbliche, il mondo della cooperazione, stanno tentando di dare una risposta a questa lacuna mettendo in campo soluzioni parallele capaci di offrire un’alternativa alla costituzione di un’organizzazione ad hoc; e dunque piattaforme che svolgano la funzione “istituzionale” o percorsi che riducano la rigidità dell’assetto legale. Per esempio le cooperative di comunità sono un ottimo strumento capace di raccogliere diverse iniziative territoriali e di offrire loro anche le condizioni che un gruppo spontaneo fatica a trovare; oppure ancora i Comuni che si stanno attrezzando per definire un albo delle realtà sul territorio e renderle così riconoscibili.
In questo senso, una mossa innovativa è stata l’adozione, in tutta Italia, del Regolamento per i Beni Comuni, che ha concesso di costruire dei modelli di governo condiviso tra pubblico e privato degli spazi urbani. Sono parecchie le iniziative, anche molto interessanti, che tentano di risolvere queste criticità.
Le multiformi pratiche dei commons hanno di fatto dimostrato in questi anni di poter esercitare un enorme potenziale di innovazione politica. Sarebbe dunque opportuno e necessario studiare a fondo i casi più significativi ed estrapolare da questi dei suggerimenti per delle forme organizzative nuove, alternative a quelle esistenti.
Rapporteur: Veronica Pecile – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Partecipanti al Tavolo:
1. Valerio Pedroni – Fondazione Somaschi
2. Claudio Berti – Ufficio di Lorenzo Lipparini, Assessore alla partecipazione del Comune di Milano
3. Giada Pieri – freelance, cultural manager di cooperative di comunità
4. Rossella Ferro – Youth Action for Rights Development aps
5. Francesco Campagnari – ricercatore, IUAV Venezia
6. Rolf Novy-Huy – Trier Foundation
7. Silvia Cafora – ricercatrice e attivista indipendente, Fondazione Matera Basilicata 2019
8. Antonio Manzoni – ricercatore, Università Sant’Anna Pisa
9. David Hamou, ricercatore, Université Paris Nanterre
Questione chiave: Quali risorse e alleanze per la messa in comune degli spazi urbani?
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
1. Istituzionalizzazione dei beni comuni: nel momento in cui le mobilitazioni per i beni comuni, nate in una di-namica spontanea e bottom-up, si espandono e cambiano scala, allora si presentano delle problematiche che sono legate al fatto che quando una pratica dal basso si istituzionalizza, inevitabilmente si irrigidisce e perde parte della sua spinta trasformativa iniziale. L’istituzionalizzazione dei beni comuni è un processo che ovviamente fa comodo all’amministrazione pubblica, poiché in questo modo i burocrati possono condurre pratiche multiformi di messa in comune degli spazi all’interno degli strumenti amministrativi. In questo sen-so, una mossa innovativa è stata l’adozione in tutta Italia del Regolamento per i beni comuni promosso dall’associazione Labsus, che ha concesso di costruire dei modelli di governo condiviso tra pubblico e priva-to degli spazi urbani. In questa modalità, i cittadini e il Comune sono a un medesimo livello in termini di re-sponsabilità verso gli spazi condivisi. Nel dibattito emerge anche l’idea per cui l’istituzionalizzazione non debba accadere per forza, se la comunità è in grado di mantenere le proprie attività di messa in comune de-gli spazi in modo informale.
2. Relazioni di potere tra gli attivisti per i beni comuni e gli attori esterni (istituzioni, privati, etc.): questo secon-do aspetto si lega al primo e riguarda gli equilibri che si creano tra le comunità che portano avanti esperienze per i beni comuni e i soggetti esterni alla comunità che sono comunque coinvolti in tali pratiche, il Comune in primo luogo. Il problema qui sta nel fatto che la partecipazione è un processo complicato: parte in modo fluido, ma poi talvolta conviene agli attivisti di istituzionalizzarsi anche per avere un maggior potere sulla scena pubblica, ma assumere una forma gerarchica è spesso visto come una sconfitta dagli attivisti stessi, benché talvolta appaia come necessario per pesare di più nelle relazioni con gli altri attori coinvolti nella go-vernance urbana.
3. I beni comuni come strumento di sperimentazione democratica: le multiformi pratiche dei commons hanno dimostrato in questi anni di poter esercitare un enorme potenziale di innovazione politica – attraverso la spe-rimentazione di modelli di governo degli spazi ispirati alla democrazia diretta – sia istituzionale e giuridica – attraverso un utilizzo “controegemonico” degli strumenti di diritto già disponibili nel nostro ordinamento, come dimostrato ad esempio dalla comunità del Teatro Valle Occupato che si è costituita in fondazione di diritto privato poiché dandosi uno status giuridico poteva proteggersi dagli alterni umori politici dell’ammini-strazione. L’aspetto problematico qui, legato ai due precedenti, è come dare continuità alla sperimentazione democratica e istituzionale portata avanti dai beni comuni: attraverso l’invenzione o la rilettura di quali strumenti (politici e normativi).
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
1. L’istituzionalizzazione dei beni comuni, quando avviene, deve accadere nel modo meno gerarchico e rigido possibile per evitare l’affievolimento del potenziale trasformativo delle pratiche in questione, che non pos-sono diventare una mera “questione amministrativa”. È apprezzabile che le amministrazioni mettano a di-sposizione degli strumenti per rafforzare queste pratiche, ma a beneficiarne devono esserne tanto i Comuni quanto le comunità, senza che le seconde siano cooptate dai primi.
2. La questione delle relazioni di potere è legata ai valori che stanno dietro alla governance dei beni comuni. Nel dibattito emerge come la definizione di tali valori sia una condizione imprescindibile per la comunità nel suo collocarsi nelle relazioni di potere esistenti. La definizione e la discussione dei valori della comunità è condizione necessaria sia per mantenere una forma fluida sia per utilizzare in modo controegemonico gli istituti esistenti nel sistema normativo e istituzionale, che possono essere usati non per escludere ma per in-cludere negli spazi condivisi (esempi: usi civici, community landtrust, etc.)
3. Per rinsaldare il potenziale di rinnovamento democratico delle pratiche dei commons è utile ricorrere alla de-finizione di beni comuni elaborata dalla Commissione Rodotà nel 2007: i beni comuni sono quei beni, di proprietà pubblica o privata, il cui uso comune deve essere garantito poiché garantisce l’esercizio dei diritti fondamentali. Il riferimento ai diritti fondamentali consente sia di pensare i commons in una prospettiva transgenerazionale e sia soprattutto di collegarli alla questione delle vulnerabilità e dei diritti sociali da soddi-sfare.
Partecipanti
Coordinatore: Salvatore De Rosa (KTH Royal Institute of Technology, Stockholm)
Approfondimenti: Cittá, natura, conflitti, leggi l’articolo di Salvatore De Rosa
Quando si parla di urbanizzazione sono molto frequenti due errori metodologici e di prospettiva. Il primo, porta ad analizzare, da parte soprattutto dei policy maker, il dispiegarsi della cittá e dei suoi processi come fenomeni inerenti costruzioni, strade, luoghi e edifici entro i confini amministrativi. Il secondo, porta a considerare la cittá come l’antitesi della natura, tradendo una concezione sia di cittá che di natura semplicistica e ideologica. In realtá, la cittá non si constituisce mai solo entro i propri confini; è invece collegata a reti logistiche di diversa complessitá e vastitá che ne permettono la produzione e la riproduzione tramite input di risorse e ricevimento degli scarti. Le fonti e gli effetti dell’urbanizzazione in un luogo, hanno quindi riverberi e effetti dislocati nello spazio e nel tempo. Allo stesso modo, l’energia e i materiali che vanno a formare la cittá e il suo contenuto, non sono altro che natura trasformata. Lungi dall’essere antitetiche alla natura, le cittá, come afferma David Harvey riferendosi a New York, non hanno niente di innaturale. Questa prospettiva, che vede cittá e urbanizzazione come fenomeni di trasformazione socioecologica su scala planetaria, impone domande cogenti che sono legate sia alla riproduzione delle ingiustizie ambientali in luoghi lontani eppur collegati, sia agli effetti a breve e lungo termine dei processi urbani, anche quelli di rinnovamento ecologico. Emergono domande centrali: a beneficio di chi e a discapito di chi avviene un certo tipo di urbanizzazione? Qual è l’effetto dell’urbanizzazione sulle relazione socioecologiche a diverse scale? Attraverso quali processi economici e politici la natura viene inserita nei processi di urbanizzazione? Chi ha il potere di decidere le forme dell’urbanizzazione?
L’attuale modo d’esistenza consumista, basato sul modo di produzione e distribuzione capitalista, in ultima analisi è dipeso finora dalla continua frabbricazione di un’illusione di autonomia dal mondo naturale che lo ha reso possibile. Eppure, ci sono limiti rispetto a quanto gli ambienti e le comunitá possono essere degradate e inquinate per supportare tale modello e tale illusione. Le fondamenta di questo modo d’esistenza sono infatti fragili, poichè il sistema che lo nutre è lineare, si basa cioè sulla continua distruzione di ecosistemi e sull’esaurimento delle risorse. In altre parole, la natura è finita, mentre il capitalismo predica la crescita infinita, e questa contraddizione è al cuore del sistema attuale. L’illusione di autonomia dalla natura è dovuta alla relativa invisiblitá delle infrastrutture e dei siti che rendono possibile il movimento e la trasformazione di materiali ed energia che sostengono i modi di vita consumisti. Dai luoghi di estrazione, ai luoghi di produzione, ai luoghi di smaltimento, la terra è avviluppata in reti logisitiche che collegano tali siti rendendo opache la loro stretta relazione. Solo nei momenti di disastri e di reazione diventano visibili (come durante il crollo delle dighe di contenimento di rifiuti minerari in Brasile, l’esplosione della piattaforma BP nel golfo del messico, e nelle miriadi di conflitti ambientali e dei lavoratori che rendono manifesta lo sfruttamento e la miseria inerenti al modo di produzione). Vi è un “fuori” della cittá che è parte costitutiva del “dentro”.
Al di sotto dell’esplosione urbanistica, vi è dunque un immenso potenziale emancipatorio, che scaturisce dalla sua sostanziale insostenibilitá e dalla richiesta di riscatto di coloro che ne pagano il prezzo piú alto. I conti del capitalismo non sono stati pagati, e ora che i limiti biofisici sono stati raggiunti e le rivolte sociali si moltiplicano, è arrivata la fine della “natura a buon mercato” e la fine della crescita gratuita.
Il rapporto tra società umane e natura non è mai stato “apolitico”. Tuttavia, è stato ideologicamente costruito come tale. Da sempre, le trasformazioni dell’ambiente da parte delle attivitá umane implicano una dimensione di potere (tra chi decide come utilizzare la risorse, chi ne beneficia, e chi ne paga le conseguenze negative). È vero peró che esiste un’attiva de-politicizzazione delle relazioni societá-natura. Ció avviene, ad esempio, quando progetti di estrazione di risorse e/o modificazione degli ambienti vengono fatti passare come frutto di decisioni apparentemente neutrali (analisi scientifiche, analisi costi-benefici, best available technologies, unica strada per il progresso, etc.). La riattivazione del politico, o meglio, la demistificazione dell’apoliticitá della natura, che impongono oggi la doppia crisi climatica e ecologica va quindi declinata come una pressante, e nuova per entitá, richiesta di uguaglianza, inclusione e partecipazione generalizzate in decisioni che hanno effetti sulla vita di tutti, soprattutto delle comunitá marginali.
I conflitti ambientali sono la manifestazione piú visibile di tale richiesta. Essi mettono in questione il carattere normalizzato della trasformazione e mercificazione della natura, portando alla luce i costi sociali e ambientali dietro gesti apparentemente banali come prendere un treno, gettare la spazzatura, acquistare un nuovo telefono. A livello analitico, bisogna infatti mettere in luce il sostrato materiale di tali conflitti, abbandonando facili spiegazioni che si rifanno a motivi tendenziosi (primo su tutti, la sindrome NIMBY). I movimenti ambientalisti sono per la societá cosiddetta “post-industriale” quello che il movimento dei lavoratori è stato per la societá industriale. Tali conflitti intimano una politicizzazione dei dibattiti socio-ambientali, intendendo il politico come il confronto e la lotta sul tipo di mondo, o mondi, che le persone vogliono creare e sul tipo di ecologie in cui vogliono vivere. La domanda di chi beneficia e chi perde da determinati processi di trasformazione della natura dovrebbe essere al centro della scienza della sostenibilitá. Infatti, i gruppi e le comunitá impegnate nei conflitti hanno il piú delle volte un ruolo determinante nel ridefinire e nel promuovere la sostenibilitá. Le proteste non sono questioni di “ordine pubblico” da dover risolvere tramite la forza, ma l’espressione di sofferenze e di aspirazioni che possono diventare motore di cambiamento radicale verso la sostenibilitá in senso lato, poichè fanno emergere valori in conflitto intorno all’ambiente, e i modi in cui pratiche insostenibili di uso delle risorse impattano sulle persone e sul pianeta. Non solo: spesso i conflitti si accompagnano all’elaborazione di alternative, alla ridefinizione delle identitá sociali e alla critica dei valori e delle istituzioni decisionali. Sull’innovazione che scaturisce dall’associazionismo e dai movimenti di base bisogna quindi fare due fondamentali cambi di percezione: primo, riconoscere che l’innovazione è un processo con uno scopo sociale condiviso, e non un fattore economico. Secondo, affrontare l’innovazione non come un semplice processo lineare di progresso scientifico e tecnologico, ma come un processo politico da negoziare attraverso una scelta tra percorsi e sviluppi multipli. L’innovazione sostenibile è quindi un fatto politico, che troppo spesso viene invece mascherato da approcci tecnocratici che impongono criteri di efficienza, profitto e convenienza. La cittá puó diventare laboratorio per nuove pratiche inclusive di costruzione di sostenibilitá. Bisogna solo raccogliere la sfida.
Rapporteur: Gloria Pessina (Politecnico di Milano/Fondazione Feltrinelli)
Partecipanti al Tavolo:
1. Silvana Kuhtz (Università della Basilicata)
2. Elena Pulcini (Università degli Studi di Firenze)
3. Piero Pelizzaro (Comune di Milano)
4. Rita Ghedini (Legacoop)
5. Simone Gamberini (Legacoop)
Il rapporto tra società e natura nel corso della storia ha sempre coinvolto dimensioni di potere ed ha sempre avuto una caratterizzazione politica. È innegabile tuttavia che sia in corso una de-politicizzazione di questa relazione, anche attraverso l’uso del discorso scientifico, tuttavia l’evidenza del cambiamento climatico rappresenta un’occasione per riattivare la dimensione politica connessa alla natura. Perché la natura torni ad essere politica è necessario superare alcuni pregiudizi, tra cui la considerazione che il processo di urbanizzazione sia limitato ai confini delle città o che la natura sia in contrapposizione alle città. Al contrario, è in corso un processo di urbanizzazione planetaria di cui le città costituiscono alcuni tra i principali nodi critici – ma non gli unici – su cui intervenire per contrastare il cambiamento climatico. Emerge la necessità di comprendere come preparare le città al cambiamento e quali attori sociali coinvolgere, senza dimenticare il ruolo che possono avere i conflitti ambientali nella produzione di nuova conoscenza e nella messa in luce delle contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo.
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
1. In Italia, a differenza di altri paesi europei come la Germania, l’Inghilterra e la Francia, mancano strumenti legislativi vincolanti per l’elaborazione di piani climatici urbani;
2. Nel caso italiano non sono state fatte abbastanza riflessioni sui potenziali soggetti aggregatori della domanda (soggetti collettivi, cooperative, associazioni etc.) in grado di costituire un livello intermedio tra i cittadini e i grandi produttori. Questa problematica ha portato a un paradosso: le politiche di incentivazione della produzione energetica sono state sostenute attraverso benefici fiscali fruibili dai singoli cittadini o dai produttori, ma non da cooperative di abitanti;
3. Un problema centrale riguarda la continuità politica delle scelte in materia ecologica e di contrasto al cambiamento climatico. Inoltre, in Italia è quasi assente un sistema di monitoraggio locale (comunale o regionale) dell’efficacia delle scelte in materia ecologica. Oltre a queste dimensioni è cruciale l’assenza di risorse dedicate.
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
1. Creare maggiori autonomie locali non in termini identitari ma sulla dimensione delle risorse e del metabolismo energetico;
2. Sollevare il tema della responsabilità generazionale, proposta già avanzata in alcune sedi internazionali (IPCC) che chiedono alle generazioni precedenti di dichiarare la loro responsabilità rispetto all’attuale cambiamento climatico;
3. Coinvolgere i potenziali soggetti aggregatori della domanda e le imprese nella promozione di stili di produzione e consumo più sostenibili facendo leva sugli svantaggi economici e reputazionali che possono emergere da modelli produttivi e di consumo non attenti alla dimensione ecologica
Conclusioni
Dalla discussione stimolata dalla questione chiave e dalla breve introduzione del Coordinatore del tavolo è emersa la necessità di ricreare un’affezione alla politica da parte dei cittadini, anche attraverso la promozione di una cittadinanza attiva e l’azione di aggregatori quali i corpi intermedi. Solo questo passaggio potrebbe permettere a componenti più ampie della società di riconoscere la dimensione politica del rapporto tra uomo e natura. E’ emerso inoltre uno scarto tra il caso italiano e alcuni casi europei in termini di risorse economiche, legali e politiche destinate ad interventi strutturali e continuativi per il contrasto al cambiamento climatico e la promozione di stili di vita e di consumo più sostenibili.
Questione chiave: Quali le pratiche e le risorse necessarie per garantire l’accesso alle opportunità urbane?
Partecipanti
Coordinatore: Bruna Vendemmia (Politecnico di Milano)
Diritto alla mobilità, leggi l’articolo di Bruna Vendemmia
E’ oramai parere consolidato in diversi ambiti disciplinari che la struttura della mobilità stia progressivamente cambiando, al punto che, negli ultimi anni numerosi studiosi provenienti da diversi settori disciplinari: urbanistica, transport studies e mobility studies, sono concordi nel considerare che il concetto di mobilità stia attraversando una transizione paradigmatica (Bertolini, 2007, Sheller e Urry, 2006) che porta necessariamente anche ad una ridefinizione degli obbiettivi, dei processi e degli strumenti necessari per pianificare la mobilità. In modo trasversale e interdisciplinare si delineano alcune rilevanti direzioni di riflessione. Innanzitutto l’idea di intendere la mobilità come una pratica socio-spazio-temporale, un’ attività fondamentale della vita; poi l’interpretazione della mobilità come un “diritto” (Secchi e Pellegrini, 2010; Carrosio e Faccini, 2018, Ascher, 2004). Il diritto di essere liberi di muoversi in modo da soddisfare i propri bisogni e le proprie aspettative, ma anche quello di garantire un livello minimo di mobilità a tutti i membri della società, quello che Ascher (2005) definisce il diritto garanzia – droit créance. Intendere la mobilità come diritto garanzia significa stabilire un livello minimo di mobilità per tutti anche chi non ha le capacità e i permessi necessari per spostarsi utilizzando il mezzo proprio o non può sostenerne le spese.
Considerare la mobilità come un diritto di cittadinanza che “non può essere né limitato, né compresso senza costruire situazioni di grave ingiustizia spaziale”(Secchi, Pellegrini, 2010; 13), ci pone di fronte alla questione pratica di come garantire il diritto alla mobilità senza però incrementarne i costi. Difatti una crescita illimitata della mobilità implica una serie di costi non solo di natura economica ma anche ambientale e sociale (Ascher; 2004; Sheller, 2018, Litman, 2013), come ad esempio il consumo di suolo, l’aumento dell’inquinamento acustico e dell’aria e il consumo di energie non rinnovabili (Bertolini, 2007); alcuni studiosi hanno evidenziato come l’aumento degli spostamenti si ponga in contrapposizione con l’idea di uno sviluppo sostenibile (Kenyon, Lyons and Rafferty, 2002); altri, ancora, hanno sottolineato un legame tra il cambiamento climatico, il consumo di risorse e l’aumento delle disuguaglianze sociali (Sheller, 2018; Latour, 2018; Ascher, 2005). Riflettere sulla possibilità di mettere in campo strumenti che garantiscano l’accesso alle opportunità urbane per tutti riducendo il consumo di risorse implicito in una mobilità senza limiti, rappresenta quindi una sfida per il progetto di una città più equa e sostenibile, per ridurre le disuguaglianze sociali e le ingiustizie spaziali, e sposta l’attenzione sul concetto dell’accessibilità come strumento operativo che consenta la messa in connessione di utenti e bisogni.
Tuttavia, volgendo lo sguardo alle modalità di gestione del territorio, mi sembra rilevante notare, che l’idea della mobilità come diritto garanzia (Ascher 2005), trova ancora poco spazio tra i soggetti deputati al governo della mobilità stessa. La promozione di un simile approccio anche all’interno delle amministrazioni pubbliche, alla stregua di quanto previsto per il diritto all’istruzione e alla sanità, può portare ad un cambiamento radicale nella pianificazione del trasporto e delle politiche di mobilità, promuovendo l’adozione di strumenti che favoriscano il superamento delle disuguaglianze sociali attraverso un uso più diffuso del trasporto pubblico e rappresentino un nudge (Thaler e Sunstein, 2009) per favorire la riduzione dei costi ambientali del trasporto.
La Strategia Nazionale Aree Interne (MUval, 2013) rappresenta uno dei pochi esempi di strategia di governo del territorio che lavora sull’idea di mobilità come diritto. Essa definisce il territorio italiano in base alla possibilità dei suoi abitanti di accedere ai diritti di cittadinanza: salute, istruzione e mobilità. Ciò nonostante, a livello nazionale, l’estrema frammentazione, sia amministrativa che disciplinare, del governo della mobilità impedisce la definizione di un progetto integrato che risponda in modo efficace ai bisogni degli utenti, come rilevato tra l’altro nel 2017 dal grande differenziale d’uso del mezzo pubblico tra grandi città e resto del paese (ISFORT, 2018). Questi dati fanno emergere in modo chiaro la necessità di un governo sovralocale e transcalare, che oltrepassi i confini amministrativi e disciplinari (Secchi e Pellegrini, 2010; Bertolini, 2007; Pucci e Colleoni, 2016; Rosenberg and Shannon, 2018), e che permetta di governare i processi relazionali generati dalla mobilità stessa: il fatto cioè, che la mobilità di alcuni presuppone l’immobilità o la scarsa mobilità di altri, altrimenti detto, la possibilità che per alcuni sia garantito l’accesso a determinate opportunità urbane implica che altri ne siano esclusi.
La natura relazionale della mobilità si concretizza in modo particolarmente evidente in alcuni contesti geografici e territoriali come ad esempio nelle grandi aree metropolitane, in cui risulta evidente lo scarto tra i livelli di mobilità delle aree centrali rispetto a quelle periferiche. Questo dato è leggibile sia a livello percettivo/qualitativo che a livello quantitativo, come riportato nel rapporto ISFORT sulla mobilità (2018), che registra nel 2017 un tasso di mobilità pari al 50% nelle grandi città e del 30% nei comuni con meno di 10.000 abitanti. Questa disparità è un segno di una governance frammentata da un punto di vista amministrativo e affidata alla gestione dei singoli comuni, che si materializza in bassi livelli di accessibilità dei comuni piccoli e periferici. Garantire l’accesso alle opportunità urbane anche nei comuni periferici e di cintura lavorando su un’offerta di servizi specifica è chiaramente una problematica urgente ma complessa che richiede soluzioni attente ai bisogni locali.
Risulta di particolare interesse il tentativo effettuato, in alcuni casi, di trasferire alcune soluzioni messe in campo nella città centrale, come i servizi di sharing mobility, dal centro città alla periferia.Tuttavia delegare questa trasformazione unicamente alla trasposizione di soluzioni tecnologiche, in una sorta di determinismo tecnicistico rischia di essere poco efficace (Sheller, 2018), al contrario questo cambiamento richiede la promozione di nuovi stili di vita al fine di modificare abitudini di mobilità che comportano un iniquo consumo di risorse e non permettono un accesso equo alle opportunità urbane.
Per concludere, di fronte alla impossibilità di costruire una mobilità senza limiti, sembra necessaria una riflessione su strategie e politiche che facendo fronte alla limitatezza di risorse, garantiscano il diritto alla mobilità e permettano l’accesso alle risorse in modo diffuso mettendo in campo strumenti che favoriscano una governance interscalare, multidisciplinare e intersettoriale promuovendo il diffondersi di pratiche ed esperienze virtuose e un cambiamento generale degli stili di vita verso una mobilità più equa ed inclusiva.
Rapporteur: Giorgia Sabbadin
Partecipanti al Tavolo:
1. Guia Biscaro – Fiab Milano
2. Maurizio Baruffi – SEA Milano
3. Marco Mazzei – Milano Bycicle Coalition
4. Martin Angioni
5. Greta Scolari – Università Bicocca
6. Matteo Colleoni – Università Milano Bicocca
7. Massimiliano Rossetti – Università Milano Bicocca
8. Fabio Besti – Fondazione Giannino Bassetti
9. Massimilano Rossetti – Università Milano Bicocca
10. Andrea Canevazzi – Architetto e Urban Planner
11. Simone Caiello – Università Milano Bicocca
12. Luca Montani- MM spa (sostituito da collega)
Diverse dimensioni concorrono nel definire la mobilità: lo spostamento, le reti mate-riali e immateriali, una dimensione soggettiva che attiene alle capacità di muoversi di ogni individuo. La combinazione di queste genera diverse pratiche di (im)mobilità, at-traverso cui cogliere i ritmi urbani, le domande e le esternalità generate da queste stesse pratiche di mobilità, anche in forma di disuguaglianze nell’accesso alle opportu-nità urbane.
Intorno a queste dimensioni si aprono prospettive interpretative nuove che hanno ri-cadute importanti, anche rispetto alle politiche urbane. Si discuterà di come costruire scenari futuri alternativi a partire da scelte condivise, confrontandosi e gestendo la de-siderabilità del cambiamento entro i limiti dell’accettazione sociale, in un quadro in cui gli attori coinvolti sono molteplici e gli interessi a volte conflittuali. Il tavolo discu-terà di come le risorse (materiali e immateriali, fisiche e personali) che determinano diverse forme di mobilità possano combinarsi allo scopo di costruire una città vivibile, sede di pratiche differenziate in cui diverse popolazioni possono realizzare i propri di-ritti fondamentali. La mobilità non deve essere intesa come uno spostamento da una parte all’altra, come un congiungimento di due punti, ma come uno spostamento per raggiungere delle nuove opportunità, un diritto che permette di accedere ad altri diritti.
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
1. Difficoltà di far cambiare le pratiche/ i comportamenti/ gli stili di vita
2. Mancanza di una governance a livello nazionale
3.Difficoltà di accesso ai dati riguardanti l’accessibilità/la pedonalità/l’accessibilità
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
1. Fiscalità dedicata alle aree metropolitane
2. Sfruttare la gamification, la spinta gentile, pratiche di premiabilità per creare comportamenti virtuosi
3. Favorire l’intermobilità, investendo sulle linee ferroviarie e incentivando i privati
Conclusioni
Negli attuali contesti urbani, diventa indispensabile ripensare la mobilità in termini di inter-mobilità, così da creare un sistema urbano integrato che consenta a tutti di accedere alle medesime opportunità. A tal fine è necessario disincentivare quanto più possibile l’utilizzo della macchina at-traverso sistemi di premiabilità (e.g. buoni taxi per chi si reca a lavoro in bicicletta); il potenziamen-to del mobility sharing; la creazione di modelli virtuosi di comportamento che possano portare ad un effettivo cambiamento culturale; il potenziamento delle linee pubbliche, soprattutto della rete ferroviaria; lo sfruttamento delle nuove tecnologie per rendere fruibili i dati sull’accessibilità. Tutto ciò rischia di essere insufficiente in assenza di un disegno complessivo a livelli più alti: diventa ne-cessaria una governance a livello nazionale che si occupi della complessità delle aree metropolitane dedicandovi risorse e strumenti legislativi ad hoc.
Questione chiave: Come ricostruire comunità fondate su relazioni di valore?
Partecipanti
Coordinatore: Nicola Basile (Il Torpedone Cooperativa)
Approfondimento: Povertà, leggi l’articolo di Nicola Basile
Analizzando gli interventi sulla povertà, nonostante l’elaborazione teorica insista su una visione sistemica e multidimensionale, sempre più spesso, troviamo riferimenti a singoli percorsi esistenziali e a categorie che richiamano la polarità successo/insuccesso. L’essere povero diventa così uno stato determinato dalle scelte di vita delle persone, insomma, se sei povero è perché hai sbagliato qualcosa, non ti sei impegnato a sufficienza oppure non sei stato abbastanza determinato.
Assumere i percorsi esistenziali come principale causa delle disuguaglianze sociali indica un approccio che produce giudizio morale sulle persone e non permette di comprendere realmente come le attuali disparità siano legate a condizioni economiche principalmente di stampo liberista e neo-liberista. In questa prospettiva la povertà diventa un elemento patologico sul quale intervenire con delle cure e non, invece, con dei percorsi di empowerment che provino a compensare le differenti condizioni di partenza.
I disequilibri si rilevano non solo tra individui ma anche tra le diverse città poste in continua competizione tra loro per il raggiungimento delle risorse. Questo rischia, da un lato, di penalizzare i territori più fragili spingendoli in una situazione sempre più critica, dall’altro, invece, a modificare l’agenda politica dell’ente pubblico per poter attrarre investimenti economici di soggetti privati (es. fondazioni bancarie di carattere erogativo).
E’ centrale rilanciare una lettura complessa della realtà, che riesca a cogliere gli elementi di circolarità che si generano tra le cause e gli effetti. Il fenomeno della povertà assume spessore e se ne comprende il carattere multidimensionale. Si capisce che la carenza economica, spesso, è l’esito di una mancanza di network, di competenze sociali, di un’inettitudine all’interazione con le Istituzioni, di un’incapacità di accesso alle opportunità. Risulta significativo comprendere che tali condizioni sono maggiormente riscontrabili in contesti che non hanno saputo promuovere coesione e relazioni sociali in grado di facilitare l’integrazione. Nel quadro tratteggiato diventa dirimente l’accelerazione sociale –approfondita da Rose – che genera una costante, e sempre più veloce, esasperazione delle disuguaglianze all’interno della città. Nello stesso territorio troviamo zone ricche, in cui i processi di integrazione funzionano e zone dove, invece, sono in atto veri e propri meccanismi di disintegrazione sociale, ne sono un indicatore, per esempio, casi di segregazione scolastica.
A quanto descritto si aggiunge una continua tendenza a personalizzare i bisogni che porta a non compiere più la necessaria fatica per definirne alcuni collettivi, attorno ai quali concentrare gli interventi. Questo sull’onda della personalizzazione, a cui le grandi piattaforme ci stanno abituando, porta anche se involontariamente alla lenta, ma costante decostruzione delle politiche pubbliche.
Tra le diverse indicazioni emerse nel gruppo abbiamo scelto tre piste di lavoro che possono contribuire a rilanciare le politiche pubbliche di contrasto alla povertà.
In prima battuta appare essenziale rinnovare il ruolo delle amministrazioni pubbliche, con particolare riferimento all’Ente Locale, come soggetto abilitante dell’ecosistema sociale. E’ centrale immaginare un nuovo posizionamento dell’Amministrazione Locale per produrre, attraverso percorsi di civismo, di promozione del bene comune e di co-progettazione, un’attivazione differente dei corpi intermedi e dei cittadini. E’ importante inoltre che l’Ente Pubblico non viva la programmazione degli interventi in relazione ai bandi, ma a partire da una continua attività di agenda setting e design delle politiche: non devono essere le risorse a guidare le politiche, ma le politiche ad utilizzare le risorse, ciò richiede un atteggiamento propositivo e di co-costruzione dell’ecosistema sociale.
In seconda battuta è necessario tornare a riflettere sulle pratiche, considerando le modalità selettive ed evitando dinamiche eccessivamente competitive che producono politiche non accessibili alle persone più fragili, non riuscendo ad intervenire sulle disuguaglianze sociali. Altro elemento critico, da monitorare con interesse, sono le situazioni in cui l’intervento pubblico viene sostituito dall’azione del privato, questo potrebbe nascondere un rischio di smantellamento delle politiche pubbliche attivando percorsi auto-selettivi che ancora una volta porterebbero ad un’esasperazione delle disuguaglianze.
Infine, appare apprezzabile, rilanciare la riflessione sugli elementi fondamentali del welfare, inteso come apparato di politiche pubbliche capaci di intervenire sulle problematiche sociali per promuovere livelli minimi di benessere. Tale aspetto è fondamentale per ricostruire un quadro metodologico-operativo – oseremmo dire anche politico – entro cui elaborare dei dispositivi capaci di costruire risposte per i soggetti più fragili. Un lavoro di nuova alfabetizzazione al welfare dedicato agli operatori permetterebbe, inoltre, di integrare approcci, come ad esempio il welfare generativo, senza lasciare intendere che il welfare costruito in anni di politiche debba essere necessariamente sostituito da meccanismi e/o retoriche che richiamano la generatività oppure all’innovazione sociale. Tutto questo, inoltre, produrrebbe un aumento del consenso intorno alle politiche sociali.
Rapporteur: Davide Gatti
Partecipanti al Tavolo:
1. Alessia Cattaneo – Comune di Milano) – Primo sportello per richiedenti asilo, attività per accoglienza durante periodo freddo
2. Nadia Martinez – Comune di Milano – Coordinamento assistenti sociali Sportello Asilo
3. Elisabetta Dodi – Centro di ricerca relazioni interculturali, Università Cattolica) – Progetti territoriali
4. Chiara Lainati – uditrice (Fondazione Vismara) – Progetti di impatto sociale
5. Maddalena Sottocorno – uditrice (Dip. Scienze della Formazione, Università Bicocca)
6. Lisa Brambilla – uditrice (Pedagogista, dottoranda scienze delle formazione in Bicocca)
7. Matilde Pozzo – uditrice (Scienze della Formazione, Bicocca)
8. Valeria Lussana – Fondazione Somaschi Onlus
9. David Benassi – Università Bicocca, Sociologia Economica e laurea magistrale in Servizi Sociali
10. Sergio Tramma – Università Bicocca, Scienze Umane per la Formazione
11. Luca Garibaldo – Dynamoscopio – Ricerca su periferie e rigenerazione urbana
12. Luca Fanelli – Action Aid – Politiche contro povertà in Italia
13. Giovanni Laino – Dip. Architettura di Napoli – Progettazione e realizzazione di interventi per Ass. Quartieri Spagnoli
Abstract
Tra tutti i temi toccati durante la discussione, emergono alcune questioni fondanti su tema povertà: le disuguaglianze che lacerano la comunità tra zone ricche e zone povere – da porre anche in relazione con l’impoverimento relazionale che tocca i cittadini – le povertà educative interpretate come fenomeno poliedrico, multifattoriale – la cui emersione è attestabile soltanto negli ultimi tempi – la difficoltà a costruire processi individuali in territori senza immaginazione del futuro. In quest’ultimo caso, la povertà è contrassegnata da una sorta di carenza immaginativa dei territori.
Date le sfaccettature molteplici che il tema della povertà richiama, vi è la necessità di abilitare cittadini nelle pratiche della città, riattivando le persone per la creazione di risposte. In questo senso, risulta opportuno partire dai bisogni per predisporre delle risposte dal basso: una possibile risposta potrebbe essere la valorizzazione degli asset territoriali attraverso politiche cooperative di comunità, come anche la messa a sistema dei capitali dei territori (sociali, conoscitivi).
Tuttavia queste dinamiche non possono non tenere conto di un punto estremamente importante: la grandissima accelerazione dei processi sociali, economici e relazionali, rende la progettazione a medio-lungo termine all’interno dei territori una sperimentazione difficile, complessa. Proprio questa sorta di incompatibilità tra i tempi della progettazione e quelli relativi alle trasformazioni socio-economiche rappresenta la causa prima delle crisi.
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
1. Cooperazione, comunità e conflitto: trovare forme nuove rispetto alla comunità. Il problema non è fare archeologia, ma vedere il nuovo. Tema fiducia e sfiducia, circolo vizioso da rompere: fiducia è proporzionale alla capacità di incidere nel contesto, ma per incidere nel contesto persone in povertà devono necessariamente costruire reti fiduciarie. Inclusione è interpretata come un difetto di processo: la non inclusione nel lavoro genera di per sé conflitti antagonisti.
Abolire termine “comunità”. Ha un significato preciso, oggi le comunità si auto-costituiscono escludendo gli altri: bisogna abilitare soggetti capaci di diventare autonomi. Costruire spazi di incontro oggi genera problemi.
2. Natura della povertà: povertà educative sono in relazione allo spazio. Elemento interessante è l’effetto che ha la perequazione dell’infrastruttura dell’istruzione: numero insegnanti per studente è lo stesso in media per le città italiane, le politiche sociali differenziano tra regione e regione.
Problema della densità della povertà negli spazi: persone che hanno un discreto accesso al consumo (es. Milano) vengono comunque escluse dal contesto sociale in cui si trovano. Povertà generazionale è uno dei grandi temi. Welfare generativo genera più capitale che reddito, chiede risorse a chi non ce le ha.
Come viene percepita la povertà? Essere povero non è qualità dell’individuo, è deprivazione.
Narrativa della povertà è critica, tende a stigmatizzare e rendere minacciosi gruppi di persone ben precisi.
Come è possibile intervenire per fermare i processi di de-privazione dei più giovani senza intervenire in modo coercitivo nel contesto famigliare?
Trauma psicologico è debilitante per il resto della vita, lo stigma della povertà è difficile da debellare: il disagio sociale si aggiunge ad altri disagi limitanti. La povertà si sposta anche da un quartiere all’altro. La città è pronta a rispondere alle esigenze del territorio? L’impegno civile non è oggi sufficiente.
Vi sono anche dimensioni importanti di conflitto all’interno delle dinamiche educative stesse: povertà educativa è deprivazione, è un esito generale. Si deve inoltre aggiungere una interpretazione pedagogica all’interno di indicatori strutturali su povertà educative.
3. Politiche di intervento e accelerazione sociale: i mercati chi soddisfano, gli operatori o i presunti beneficiari? Quanto incidono? Attenzione a non essere vittime dell’accelerazione sociale. Ci sono i bisogni collettivi, ma non vengono tenuti insieme. Vi è una de-standardizzazione dei bisogni, la povertà non è soggettiva bensì collettiva. Si realizzano progetti, ma senza profonde riflessioni di fondo e con un rischio “bulimico” di prestazioni.
Bisogna capire quale pensiero si vuole condividere nel settore e trovare una base comune di intervento. Ci vuole livello specifico di competenza da attivare per rispondere ai bisogni.
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
1. [Raccomandazione] Le pratiche di contrasto devono darsi obiettivi realistici, in relazione alle situazioni urbane a cui si riferiscono. Si apprende sempre dalle pratiche, sia buone che cattive. Formazione e approfondimento devono essere capaci di non dare per scontato nulla e devono essere di ampio respiro.
Bisogna essere capaci di investire risorse per la creazione di vere reti fiduciarie.
2. [Raccomandazione] Conflitto: la povertà sembra dover esistere necessariamente. La città è colma di sacche di povertà, è un conflitto giornaliero. Bisogna aiutare il contesto generale, la povertà fa paura a poveri e ricchi. Bisogna essere capaci di dire la verità sui processi di deprivazione: com’è che il sistema genera povertà?
3. [Raccomandazione] Gli operatori oggi si trovano a lavorare insieme a persone poco qualificate. L’obiettivo è lo sviluppo di competenze trasversali per contrastare la de-standardizzazione dei bisogni.
Le persone stesse devono capire come mediare tra i diversi bisogni per trovare un minimo comune denominatore.
Conclusioni
Dimensione dell’azione: leggere la povertà per rispondere ai bisogni, attraverso un ripensamento dei meccanismi di produzione del sistema e la riattivazione di reti di fiducia e delle relazioni educative.
L’operatore deve evitare rappresentazioni edulcorate e insistere sulla dimensione del conflitto: bisogna tenere insieme i percorsi individuali delle persone con le risposte da mettere in gioco. Come si accompagnano e formano gli operatori?
Le misure del terzo settore non devono però sostituirsi alle politiche pubbliche di intervento, è una dimensione problematica. Bisogna spingere su nuove policy anche attraverso competenze pedagogiche.
Partecipanti
Coordinatore: prof.ssa Enrica Chiappero, Università degli studi di Pavia
Approfondimenti: Qualità della vita, leggi l’articolo di Enrica Chiappero
L’idea di qualità della vita chiama in causa una pluralità di aspetti e può assumere una configurazione assai diversa a seconda del punto di vista e della prospettiva disciplinare che si assume. Nella discussione di questo tavolo si è convenuto sull’importanza e sull’urgenza di definirne i contorni e i contenuti in una prospettiva di sviluppo umano e sostenibile, partendo da un assunto ampiamente riconosciuto: l’adozione di un approccio unidimensionale e mono-settoriale è tanto più anacronistico e inefficace se pensato con riferimento a società articolate e complesse che impongono l’adozione di una visione olistica, multidimensionale e sostenibile.
Se questa è la prospettiva in cui ci poniamo, appare forse più semplice definire cosa non è qualità della vita. Non è solo ciò che riguarda il reddito e la ricchezza di cui disponiamo, non è solo la qualità dell’aria che respiriamo e del cibo che mangiamo, non è solo una percezione soggettiva della propria condizione generale, non è solo legata alla qualità e all’intensità delle relazioni che ci legano: ma è certamente anche questo e molto altro ancora. Non è ciò che ci posiziona all’interno di una possibile graduatoria (fra le tante possibili) fra città, regioni, nazioni o continenti, assumendo che tutti coloro i quali vivono all’interno di questa o di quella città, regione o nazione stiano certamente meglio di chiunque altro viva altrove.
Un punto di convergenza nella nostra discussione è che la definizione di qualità della vita non può prescindere dagli individui e dal contesto cui si fa riferimento, con le loro differenze e specificità. Mettere al centro le persone significa assumere che ciò che definisce la qualità della vita di un bambino o di un anziano è diverso individualmente ma egualmente importante; che garantire il soddisfacimento dei bisogni e tener conto delle esigenze dei singoli richiede metriche ma anche azioni e considerazioni diverse. Prendere sul serio i contesti significa tener conto della diversità di condizioni socio-economiche ma anche culturali e ambientali che caratterizzano i luoghi in cui viviamo, della qualità delle istituzioni presenti (da cui discende molto spesso la qualità della vita degli individui), della opportunità ma anche dei vincoli che contesti diversi sono in grado di generare, dell’intreccio di reti di relazioni, di interessi, di bisogni e delle reti di sostegno tra individui e degli individui con le istituzioni che si producono all’interno dei diversi ambiti.
Questo mutevole e complesso scenario chiede di mettere in campo strumenti in grado di intercettare, decodificare e interpretare l’eterogeneità dei bisogni e la pluralità di ambienti entro i quali gli individui si trovano ad agire; è questo un passaggio fondamentale per offrire soluzioni efficaci in chiave di azioni e di politiche.
Così intesa la qualità della vita diventa soprattutto capacità della persona di vivere una vita degna, realmente umana e sostenibile, all’interno di contesti complessi che se possono aprire importanti spazi di opportunità per taluni ma possono egualmente erigere (in modo non intenzionale) barriere ed ostacoli per altri. L’attenzione, in particolare, andrebbe sempre posta nei riguardi di quei soggetti più esposti e più fragili, nella consapevolezza che la fragilità non è però necessariamente un elemento distintivo di una persona ma può essere una dimensione comune delle persone, di tutte le persone, nei diversi momenti, attesi o inattesi, che caratterizzano la nostra vita: è il caso della vulnerabilità di chi inaspettatamente perde il lavoro, di chi per malattia, per circostanze familiari avverse o semplicemente per vecchiaia si ritrova esposto al rischio di povertà, marginalità, esclusione, difficoltà a soddisfare le proprie esigenze di base.
Se restringiamo, come abbiamo fatto, l’attenzione sulla città di Milano, emerge con chiarezza la specificità di un contesto certamente complesso, ampio e articolato in termini di spazio e di popolazione, che si pone tradizionalmente ai primi posti delle classifiche sulla qualità della vita condotte annualmente da “Il Sole 24 Ore”, sulla scorta di indicatori quali ricchezza e consumi, ambiente e servizi, giustizia e sicurezza, cultura e tempo libero. Ma anche e soprattutto di una città che, grazie all’attivazione di risorse finanziarie e umane, pubbliche, private e del terzo settore, ben radicate e storicamente presenti sul territorio riesce a dare una risposta più che soddisfacente ai bisogni di base dei gruppi più vulnerabili.
La sfida che ha di fronte Milano è allora quella di puntare ad innalzare progressivamente la qualità delle risposte fornite rispetto a questi bisogni. Garantire un pasto caldo a chi non può provvedere da solo è fondamentale; egualmente importante è garantire la qualità del cibo nelle mense scolastiche o nei servizi comuni di ristorazione. Fare riferimento alla qualità nella nutrizione, non significa però soltanto garantire l’accesso al cibo di buona qualità per chi ne ha bisogno: il cibo è anche un veicolo di accesso alle culture, è cura e costruzione delle relazioni tra persone. Su questi fronti vi sono certamente ancora spazi importanti di azione e di miglioramento.
Allo stesso modo, poter disporre di abitazioni economicamente accessibili e di buona qualità; di scuole funzionalmente efficienti, con dotazioni e spazi ricreativi adeguati; di maggiori, e possibilmente migliori, opportunità di lavoro in termini di condizioni lavorative, salari, tutele e sicurezza; di centri di cura e assistenza per anziani e malati, è garanzia di dignità della persona nelle diverse fasi della vita, dalla giovinezza fino all’invecchiamento e alla morte (accanto alla qualità della vita è opportuno interrogarsi anche sulla qualità della morte, per quanto possa risultare difficile).
Ma come fare per garantire qualità nel soddisfacimento dei bisogni lungo il ciclo della vita, con particolare attenzione ai soggetti e alle fasi della vita più vulnerabili? E’ opinione condivisa che occorra adottare un approccio multi-stakeholdership, mettendo in rete le esperienze già esistenti, guardando alle tante esperienze maturate nel corso del tempo dal terzo settore, favorendo l’attivazione di nuove energie (nel settore pubblico, nell’associazionismo, nel mondo del privato e dell’industria) per sperimentare nuove iniziative e intraprendere nuovi percorsi. Occorre non solo mettere in dialogo tra loro attori diversi, ma cercare di stimolare la costruzione di attività di compartecipazione tra i diversi stakeholders che, a partire dalle loro esperienze e specificità, pongano in atto la costruzione di un vero e proprio modello d’azione coesivo in grado di creare network collaborativi, con un approccio bottom-up e di sussidiarietà orizzontale. Per facilitare questo processo è importante la creazione di luoghi e di spazi di collaborazione con capacità di ascolto diffusi sul territorio così da poter garantire una maggior prossimità con le situazioni di bisogno ma anche di creare condizioni di collaborazione tra attori. Sono stati citati, al riguardo, due possibili pratiche di interesse. Il primo riguarda i patti di collaborazione, attraverso i quali l’amministrazione comunale non si pone quale esecutore o supervisore, ma crea le condizioni affinché questo avvenga tra attori presenti nel contesto. Il secondo esempio, fa riferimento alla presenza di servizi di hospice diffusi sul territorio comunale.
Un ultimo aspetto, appena toccato per ragioni di tempo ma ritenuto non meno importante, riguarda la necessità di affiancare alla cultura del diritto, in particolare alle tutele e garanzie di base dei soggetti più in difficoltà, la cultura del dovere e della responsabilità dei beneficiari, oltre che degli operatori. La disponibilità di risorse e di servizi importanti e di qualità presenti su un contesto come quello milanese, particolarmente ricco e favorito, non può in alcun modo legittimare sprechi, furberie e comportamenti disonesti da parte di chi di queste risorse ne beneficia o ne risponde. La qualità della vita si fonda anche, e soprattutto, sul patrimonio di fiducia reciproca che comunità e istituzioni sono in grado di creare.
Rapporteur: Martina Di Ridolfo
Partecipanti al Tavolo:
1. Simona Sambati – Casa della Carità
2. Fabrizio de Fabritiis – Milano Ristorazione
3. Raffaella Gai – Fondazione Vidas
4. Michele Papagna – Consumi
5. Marco Magnelli – Banco Alimentare
Abstract
Qualità della vita in una città ricca è soprattutto capacità di agire mettendo al centro la persona e di garantire una vita degna, realmente umana e sostenibile, proprio a partire dai soggetti più fra-gili, nella consapevolezza che la fragilità è una dimensione comune della persona.
Riconoscendo che una città come Milano, grazie all’attivazione di risorse pubbliche, private e del terzo settore, riesce a soddisfare ragionevolmente i bisogni di base, la vera sfida è quella di puntare alla qualità di questi bisogni
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
Come garantire qualità nei bisogni e in tutto il ciclo della vita, in particolare qualità:
1. nella nutrizione (cibo come cultura e relazione e manifestazioni di bisogni più profondi)
2. nell’abitazione (accessibilità)
3. nella opportunità e nelle condizioni lavorative, nella remunerazione e tutele del lavoro
4. nelle fasi di invecchiamento e nella morte
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
Creare condizioni di contesto favorevoli allo sviluppo di servizi di qualità.
Come?
Mettendo in rete le esperienze già esistenti (no-profit e terzo settore) e attivando nuove energie (associazionismo, privato, etc…), con un approccio bottom-up e di sussidiarietà orizzontale, fa-vorendo luoghi e spazi di collaborazione con capacità di ascolto diffusi sul territorio e di maggior prossimità alle situazioni di bisogno, senza dimenticare la dimensione della bellezza.
La bellezza cura;
la bellezza educa;
la bellezza non è un lusso.
Esempio 1: Patti di collaborazione: l’amministrazione comunale si mette a disposizione non come esecutore o supervisore, ma crea le condizioni; Hospice diffusi, soluzioni inter-generazionali
Esempio 2: Affiancare alla cultura del diritto la cultura del dovere e della responsabilità.
Conclusioni
Riqualificare il concetto di qualità della vita in relazione al contesto e agli individui
Questione chiave: Come ricomporre le pratiche di rigenerazione urbana in uno spazio autenticamente inclusivo?
Partecipanti
Coordinatore: Patrizia Gabellini, Politecnico di Milano
Approfondimento: Spazio pubblico, leggi l’articolo di Patrizia Gabellini
Lo spazio pubblico è sempre stato al centro della progettazione e della riflessione urbanistica, dove riconoscere i problemi che contraddistinguono l’insediamento urbano in una determinata fase e i modi per configurarlo, realizzarlo, renderlo fruibile. La letteratura è, infatti, abbondante e in gran parte si interseca con quella riguardante la città, il suo progetto e il suo governo. Sembra dunque imprescindibile occuparsene entro una iniziativa dedicata alle mutazioni della città contemporanea. In definitiva, quello che potrebbe sembrare un tema usurato è piuttosto un evergreen.
D’altro canto, il confondersi delle due questioni rende necessario mettere a fuoco le dominanti del momento, allo scopo di cogliere appieno la capacità dello spazio pubblico di essere espressione della città, della sua cultura, dei suoi problemi, delle sue aspirazioni.
Nel dibattito promosso all’interno dell’iniziativa About a City. Rethinking Cities, probabilmente anche per una sapiente selezione dei casi e degli interlocutori, l’attuale rappresentazione dello spazio pubblico, le attese e le questioni aperte che lo riguardano sono chiaramente emersi.
Che cosa sia lo spazio pubblico, o meglio come si possa definirlo, è stato l’incipit della riflessione che si è svolta al ‘tavolo’, rilevante perché rende palese l’opacità della locuzione a seguito della stratificazione di significati, e perché di fatto chiede una nuova concettualizzazione. Parto da questa constatazione per le mie note a margine. La prima riguarda le ragioni per le quali è opportuno porsi questa domanda apparentemente elementare; la seconda riguarda l’evidente slittamento tematico avvenuto nell’arco di pochi anni e che sintetizzerei come spostamento del baricentro dallo spazio fisico alle pratiche.
Almeno alcune ragioni per interrogarsi su che cosa sia oggi lo spazio pubblico sono riconducibili alla ridefinizione dei rapporti tra pubblico e privato e tra stato e mercato.
Lo sfumare della distinzione tra pubblico e privato è l’esito di un processo che ha visto progressivamente ampliarsi la produzione e gestione di spazi per l’uso pubblico su iniziativa dei privati, processo spinto dalle difficoltà economiche e finanziarie delle amministrazione pubbliche, ma ascrivibile anche all’astuzia di un mercato che ha compreso come la qualità dell’abitazione stia nei suoi “prolungamenti”, come l’offerta debba adeguarsi alle nuove esigenze. La dominanza del pensiero neoliberista è indubbiamente rilevante in questo processo e non estraneo -per contrapposizione- all’emergere di varie forme di condivisione, a quelle espressioni di sharing economy che segnalano resistenza e/o resilienza rispetto a una progressiva ritrazione dell’offerta pubblica. Gli spazi della vita in pubblico hanno così molti e diversi regimi proprietari e regole di accesso per cui occorre ricomprendervi tutti quelli effettivamente disponibili a un uso pubblico ‘allargato’.
Ci si potrebbe spingere oltre questa prima ridefinizione operando una distinzione tra lo spazio aperto e quello costruito, tra quello messo a disposizione e quello ‘conquistato’, aspetti che modificano in modo importante il grado e il tipo di accessibilità. Accanto a questi cambiamenti strutturali che hanno aperto una importante riflessione sul welfare materiale, meriterebbe poi un approfondimento l’affermarsi del termine ‘collettivo’, talvolta confuso con pubblico nel linguaggio comune benché sensibilmente diverso, e pertinente con le condizioni mutate. Uno spazio connotato come collettivo nulla dice circa le partizioni istituzionali e proprietarie o i caratteri fisici che lo contraddistinguono, perché invece si riferisce alla estensione e pluralità dei soggetti che vi possono accedere, ai modi di una compresenza che non è banale.
Ciò che sembra fare la differenza, segnare lo scarto che rende incerta e controversa l’identificazione dello spazio pubblico, è lo spostamento dell’attenzione sulla praticabilità, con slittamenti progressivi che portano a identificarlo con lo spazio della cittadinanza e non solo ad annoverarlo tra i beni comuni, laddove cittadinanza e bene comune, come evidente, sono frames assai laschi. La conclusione è che, non da oggi ma ormai da decenni, quando si voglia procedere con la costruzione di una mappa dello spazio pubblico, sia essa raffigurazione o rappresentazione mentale, la lista delle componenti da includere è motivo di discussione, non è data. Nelle difficoltà della mappatura si emblematizza il problema di identificazione/nominazione.
Non è forse inutile richiamare quel generale ‘rimescolamento delle carte’ che gli studiosi riconducono alla terza rivoluzione urbana e che nello spazio di ‘uso’ pubblico (non pubblico tout court) vede manifestarsi il caleidoscopio delle differenze che diventano divari, delle competizioni che diventano conflitti, quel protagonismo sociale e quel processo di individualizzazione che sono caratteristici del nostro tempo. Le definizioni dello spazio pubblico come “diritto”, “spazio antagonistico”, “spazio politico” emerse dal tavolo a me sono sembrate altrettante chiavi per mettere a fuoco ciò che ho cercato di dire: una fondamentale deviazione di significato e di senso dallo spazio fisico allo spazio percepito e vissuto.
Proprio questo scarto, che potremmo anche ricondurre alla nota diade spazio/luogo, fa sì che si discuta dell’accesso e delle sue modalità, delle condizioni che rendono possibile sentirsi liberi di frequentare e prendersi cura di uno spazio per farlo aderire alle proprie attese, se non anche ai propri bisogni e desideri. I ‘dialoghi’ tra i diversi soggetti responsabili, proprietari e/o gestori, quindi i contenuti delle convenzioni pubblico-privato e dei regolamenti da una parte, i ‘dialoghi’ tra coloro che gli spazi frequentano dall’altra, diventano indispensabili. Responsabilità della governance e cura oltre il progetto, partenariato e collaborazione, diventano termini ed espressioni dominanti.
Una tale impostazione del discorso segnala un profondo ri-orientamento del pensiero.
Dimensioni dello spazio fisico (piccolo, medio, grande), genesi (realizzato ex-novo, rigenerato), concezione (standardizzata, non- standardizzata), benché siano tutti aspetti non estranei all’accessibilità e alle pratiche d’uso, restano sfocati, sullo sfondo del confronto, non solo attorno al tavolo di About a City. Rethinking City. Come se il supporto diventasse irrilevante, oggi la questione è un’altra: al centro sono le pratiche sociali e le politiche, ciò che di uno spazio può fare un luogo.
Proprio perché la questione è la convivenza, se non la condivisione anche nelle sue forme particolari di inclusione sociale, preoccupa la diffidenza diffusa, la paura del diverso, ciò che crea nuovi confini visibili e invisibili. E forse nelle esperienze di comunità, non così tante ma certamente di buona fama, ci sono anche elementi di rimozione, più inconsapevole che volontaria, di questo problema, perfino di rifugio (nei gruppi di comunità possono albergare dei fantasmi). In questo scenario il ricorso alle forme escatologiche dell’arte va considerato con disincanto: tattica e non strategia, necessaria talvolta e mai sufficiente.
Rapporteur: Giulio Ferraresi, Università Statale di Milano
Partecipanti al Tavolo:
1. Margherita Barocci – polo società cooperativa, Ancona
2. Elisa Cionchetti – Polo società cooperativa, Ancona
3. Maria Giardino – Universtiy of Arts, Londra
4. Marianna D’Ovidio – Università di Bari
5. Marina Reissner – City Life
6. Francesca Colombo – Fondazione Catella
7. Simona Morini – IUAV
8. Alfredo Alietti – Università Ferrara
Abstract
Dalla discussione tra i partecipanti al tavolo è emersa come principale questione, da tutti sottolineata, quella della difficoltà di dialogo con le amministrazioni locali. Il problema maggiore pare essere quello di riuscire, innanzitutto, a intavolare con i rappresentanti municipali un dialogo iniziale, in quanto questi ultimi tendono a mostrare un’immediata riluttanza ad accogliere proposte di valorizzazione degli spazi pubblici. La questione è aggravata dalla difficoltà di destreggiarsi tra le procedure burocratiche pubbliche, che spesso finiscono per scoraggiare attori potenzialmente interessati a contribuire alla riqualificazione di queste aree urbane. Infine, la carenza di fondi disponibili obbliga i privati a cercare sponsorizzazioni altrove, rallentando o bloccando progetti di vario tipo.
La seconda questione riguarda principalmente gli individui che s’intende coinvolgere nei progetti di riqualificazione o valorizzazione delle aree pubbliche urbane. I soggetti più fragili, molto spesso, sono diffidenti nei confronti di chi cerca di convincerli della bontà e utilità del proprio lavoro, nonché dei potenziali benefici che ricadrebbero su di loro, e sulla comunità nel suo insieme. Ovviamente, in questo caso la zona dell’intervento è di particolare rilevanza: nelle zone marginali, quando i progetti mirano a inserirsi nella comunità locale, questo problema è particolarmente sentito.
Il terzo problema riguarda questioni di linguaggio e strategia complessiva. L’ormai diffuso utilizzo del termine ‘bisogni’, volto a sottolineare il valore degli spazi pubblici urbani, distorce la natura normativa dell’argomento. Le rivendicazioni di fruizione degli spazi pubblici dovrebbero essere espresse in termini di diritti, mentre la parola bisogni, la cui natura è soggettiva, ha l’effetto di sottostimare la questione. Quello relativo agli spazi pubblici è in primo luogo un diritto alla socialità. Infine, una questione di strategia complessiva: le amministrazioni hanno una visione molte volte approssimativa di come gestire gli spazi pubblici che, conseguentemente, rimangono spesso poco fruibili.
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
1. dialogo con istituzioni pubbliche/amministrazioni comunali.
2. difficoltà a coinvolgere la cittadinanza in progetti di valorizzazione degli spazi pubblici.
3. Uso del linguaggio – bisogni/diritti; visione strategica degli spazi pubblici.
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
1. rafforzare pratiche di governance, al fine di facilitare la collaborazione tra attori pubblici e privati.
2. Individuare soggetti in grado di collegare autorità, operatori privati (o no-profit) e comunità locali.
3. introdurre il tema nel dibattito pubblico, per riportare la questione entro un contesto di diritti e richiamare l’attenzione delle amministrazioni sull’utilizzo degli spazi pubblici.
Conclusioni
Nel corso del dibattito è stata sottolineata la centralità del ruolo delle amministrazioni locali in merito al tema. La scarsa inclinazione di queste ultime a dare priorità alla questione porta a una generalizzata difficoltà, da parte di tutti, a intraprendere operazioni di valorizzazione degli spazi pubblici urbani. Rafforzare il dialogo con i rappresentanti pubblici dovrebbe essere un modo per dare alla questione la centralità che merita, senza però dimenticare l’importanza di portare la questione all’attenzione più generale della cittadinanza.
Questione chiave: Quali modelli e strumenti abilitanti un’intelligenza diffusa?
Partecipanti
Coordinatore: Giacomo Gilmozzi
Rapporteur: Jacopo Perazzoli
Partecipanti al Tavolo:
1. Massimiliano Cattaneo (sensibilizzazione gli adolescenti sui rischi e le opportunità delle nuove tecnologie; necessità alfabetizzazione tecnologica)
2. Gabriele Mazzoletti (manager impresa privata, JUUL Labs; ruolo che le tecnologie possono avere nella mobilitazione dei bisogni in maniera più avanzata: obiettivo da perseguire ponendo attenzione all’esempio negativo dell’esperimento cinese)
3. Giulio Quarta (sociologia Padova, triennale: progetto Il Collettivo, con l’obiettivo di creare organizzazione il discorso tecnologico; critica alla Smart City)
4. Davide Riva (laureando triennale polimi in ingegneria matematica, orientamento economico e finanziario, così da comprendere a livello locale le influenze delle tecnologie per lo sviluppo dell’economia locale)
5. Stefano Gobbi (coordinamento relazioni CSI; coordinamento consulta sport e cultura del forum nazionale del terzo settore; consigliere fondazioni bancarie, finanza ad impatto sociale; consigliere di un ente teatro; iper critico nei confronti del mondo no profit: managerizzazione del mondo no profit; tecnologia deve essere finalizzata allo sport dilettante; tecnologia può aiutare a sviluppare un mondo meno economico-centrico)
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
1. Competenze e saperi della società domani, questioni implicite rispetto ai saperi tecnologici?
2. Smart City; idea mainstream della real città smart (esperimento di Toronto, dock completamente acquistato da Google): come utilizzare determinate tecnologie non solo per degli scopi di marketing ma anche per migliorare la vita quotidiana del cittadino?
3. Come creare insieme (co-produrre) i beni comuni grazie alla tecnologia? La figura del cittadino sta comunque cambiando grazie alla tecnologia.
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
1. Riappropriazione della tecnologia a livello europeo: istruzione, formazione, competenze. Esempi: politiche che limitino l’uso privato di mezzi e organizzazione di un servizio di mobilità pubblica più efficace; piano attuato dal governo giapponese con Toyota e Mitsubishi; dati nelle mani del pubblico in prospettiva europea.
2. Governo della città per lo sfruttamento delle tecnologie: car sharing (impatto sulla sostenibilità). Sulla base delle tecnologie oggi crediamo che il governo delle città potrebbe fare dei passi in avanti; città intelligente. Esempi: utilizzo di piattaforme per la consulta del cittadino (in sperimentazione sia a Barcellona che ad Amsterdam); protocollo per garantire i diritti digitali dei cittadini.
3. Accelerare razionalmente la transizione per una maggiore sostenibilità ambientale. Esempio: tracciare anonimamente gli utilizzatori per migliorare i servizi pubblici
Questione chiave: Rispetto a tutti i temi affrontati, la questione chiave che è emersa è quella di comprendere come sia possibile rendere alcuni territori potenzialmente turistici, provando – al contempo – a trasferire la consapevolezza che, per certi aspetti, l’assenza del turismo a volte è un bene.
Partecipanti
Coordinatore: Francesco Curci
Approfondimento: Il turismo urbano e la città inclusiva. Nessi, evidenze e orizzonti di gestione di un rapporto complesso, leggi l’articolo di Francesco Curci
Il turismo è una delle componenti che caratterizzano gli attuali cicli urbani. Lo è certamente in chiave competitiva e di riposizionamento di alcune città su scala nazionale e internazionale. Lo è anche perché siamo nel pieno di quella che alcuni autori hanno definito Urban Age (Burdett & Sudjic, 2008; Gleeson, 2012). Tuttavia, il concetto di turismo urbano non si presta a generalizzazioni poiché le situazioni, i contesti e le specificità degli attrattori urbani e dei processi in atto appaiono estremamente diversificati, tanto più se si guarda agli impatti a livello locale1.
Pensando al caso italiano, in uno sforzo di stilizzazione estrema, si possono però distinguere due idealtipi riferibili alle tendenze e ai modelli mainstream del turismo urbano contemporaneo.
Da un lato il “risorgimento” di alcune città grandi e medie – non solo post-industriali – che in tempi relativamente recenti si sono scoperte o riscoperte attrattive dal punto di vista turistico. Ciò grazie a grandi eventi, investimenti e interventi di trasformazione urbana, processi di rebranding e operazioni mediatiche che le hanno portate sulla ribalta dei circuiti, delle guide e degli itinerari del turismo nazionale e internazionale[2].
Dall’altro, l’evoluzione e le crescenti contraddizioni di alcune capitali e città d’arte che già da decenni si configurano come imprescindibili mete del turismo di massa, i cui dilemmi attuali si dipanano attorno al rapporto tra tutela e sfruttamento, ecologia e commodificazione, identità e gentrificazione[3].
Entrambe le situazioni, nonostante le loro differenze strutturali, sono legate più che mai ai processi di ristrutturazione del capitalismo globale, tanto che non è possibile parlare di turismo e di economia turistica senza prima rendersi conto che il turismo urbano è oggi uno dei principali canali attraverso cui il capitalismo riafferma la sua forza e impatta sui luoghi e sulle comunità.
Che tipo di urbanesimo è quindi quello prodotto dal turismo urbano contemporaneo? Il turismo è un fenomeno sociale multiforme e in continua evoluzione che per proporzioni e pervasività rappresenta un tratto distintivo e irrefrenabile delle società contemporanee (D’Eramo, 2018). Se sia una risorsa o una minaccia per le città è una questione dibattuta da tempo. Oggi, però, crescente attenzione viene posta sul modo in cui il turismo sia capace o meno di rafforzare la “inclusività” urbana; quanto, cioè, esso sia in grado di ampliare o erodere i diritti, i servizi collettivi e il benessere dei cittadini, ma anche la loro capacità di autodeterminazione.
Sfortunatamente, oltre agli evidenti apporti positivi, ci sono segnali che rivelano come il turismo urbano sia correlato alla crescita di conflitti e disuguaglianze socio-spaziali[4]. Dal punto di vista abitativo si possono considerare, ad esempio, gli effetti negativi sul mercato della casa, e in particolare del mercato dell’affitto, generati dal fenomeno delle locazioni brevi (short-term letting) e dall’enorme incremento che in molte città si sta registrando in termini di posti letto extra-alberghieri[5].
Dal punto di vista economico, si possono riconoscere gli effetti deleteri della stagionalizzazione, concentrazione, omogeneizzazione e omologazione delle attività economiche, del lavoro e delle forme di consumo, con i noti fenomeni di sostituzione del commercio di vicinato e delle attività artigianali e terziarie di servizio alla persona con esercizi e attività rivolti prettamente ai turisti.
Nonostante il processo di apparente democratizzazione connaturato nella diffusione di piattaforme peer-to-peer e nella costante innovazione della sharing economy e delle tecnologie digitali, molti bisogni e problemi urbani crescono e si fanno al contempo più invisibili (Srnicek, 2017; Celata, 2018; Capineri, Picascia & Romano, 2018; Renau, 2018). Così, dietro la “cortina fumogena” prodotta dai flussi turistici si nascondono delicate questioni urbane e sociali: i soggetti e i luoghi che non sono in grado di catturare la loro parte di ricchezza generata dal turismo rischiano di essere espulsi o marginalizzati senza alternative (Semi, 2015). In tal senso è ormai ampiamente riconosciuto quanto delicato sia l’equilibrio esistente tra la “città degli abitanti” e la “città dei turisti” e quanto il modello turistico adottato possa rafforzare o indebolire questo equilibrio (Uysal et al., 2016; Tokarchuk, Gabriele & Maurer, 2017).
Evidentemente il turismo urbano contribuisce alla crescita delle disuguaglianze socio-spaziali quando si basa esclusivamente sul rapporto economico tra domanda e offerta, senza preoccuparsi di lavorare sulla qualità dell’una e dell’altra né sul riconoscimento dei bisogni emergenti. Esso aumenta le disparità sociali quando si insinua nello spazio urbano senza essere anticipato o accompagnato da adeguate riflessioni sul rapporto tra abitanti e turisti, tra produzione e consumo, tra valorizzazione e sfruttamento, tra patrimonio del quotidiano e patrimonio dell’umanità. Il turismo produce effetti perversi quando gli stakeholder e i decisori pubblici non si preoccupano di coltivare sul piano socio-culturale e politico la relazione tra permanenza e temporaneità, tra sguardo locale e prospettiva globale, tra pratiche endogene e dinamiche esogene.
I tempi sono forse maturi per sperimentare nuovi approcci al turismo urbano che non siano né business-as-usual né mono-culturali. Ciò richiede ad esempio di utilizzare la leva fiscale per mitigare le disuguaglianze socio-spaziali, ma anche di pretendere un migliore controllo della qualità e della sostenibilità dell’intera filiera del turismo urbano. Coraggioso ma necessario sarebbe vincolare almeno una parte del gettito prodotto dalle tasse turistiche all’implementazione di politiche abitative nei contesti e per le popolazioni più vulnerabili. Ambizioso ma altrettanto necessario sarebbe sperimentare l’integrazione tra politiche turistiche e politiche sociali. Occorre però mettere prima in discussione i processi che mirano solo a far crescere il turismo in modo esponenziale, come se fosse una panacea, e favorire quelli che cercano di cambiare i paradigmi mono-culturale ed estrattivo, diversificando, destagionalizzando, ridistribuendo i flussi e pianificando in un modo intersettoriale. A tal fine, diventa fondamentale riconsiderare anche il ruolo della formazione e dell’informazione, sia sul fronte dell’offerta che della domanda turistica, qualificando maggiormente la produzione di spazi e servizi per i turisti ma anche rendendo questi ultimi più consapevoli del loro impatto sui luoghi e sulle comunità.
Riferimenti
Burdett, R. & Sudjic, D. (Eds.) (2008). The endless city: the Urban Age project by the London School of Economics and Deutsche Bank’s Alfred Herrhausen Society. Phaidon, London, UK.
Capineri, C., Picascia, S., & Romano, A. (2018). L’airificazione delle città. Airbnb e la produzione di ineguaglianza, CheFare. https://www.che-fare.com/lairificazione-delle-citta/
Celata, F. (2018). Il capitalismo delle piattaforme e le nuove logiche di mercificazione dei luoghi
Colomb, C., & Novy, J. (Eds.) (2017). Protest and resistance in the tourist city. London: Routledge.
D’Eramo, M. (2017), Il selfie del mondo. Fetrinelli, Milano.
Gleeson, B.J. (2012) ‘TheUrban Age: paradox and prospect’, Urban Studies, 49 (5), 1–13.
Gursoy, D. & Nunkoo, R. (Eds.) (2019). The Routledge Handbook of Tourism Impacts: Theoretical and Applied Perspectives. Routledge, Abingdon, Oxon-New York, NY.
Hirsch, F. (1976). The Social Limits of Growth. Harvard University Press, Cambridge.
Renau, L. (2018). Touristification, Sharing Economies and the New Geography of Urban Conflicts. Urban Science, 2, 104.
Semi, G. (2015). Gentrification: Tutte le città come Disneyland?. Il Mulino, Bologna.
Srnicek, N. (2017). Platform capitalism. John Wiley & Sons.
Tokarchuk, O., Gabriele, R., & Maurer, O. (2017). Development of city tourism and well-being of urban residents: A case of German Magic Cities. Tourism Economics, 23(2), 343-359.
Uysal, M., Sirgy, M. J., Woo, E., & Kim, H. L. (2016). Quality of life (QOL) and well-being research in tourism. Tourism Management, 53, 244-261.
[1] Sugli impatti del turismo in senso lato si segnala il recente lavoro curato da Gursoy e Nunkoo (2019).
[2] Nel contesto italiano, dopo il caso di Torino post-olimpica, oggi i riflettori sono accessi in particolare su Milano e Napoli, ma anche su Matera.
[3] In questo caso pensiamo a Roma, ma soprattutto a Firenze e Venezia, con quest’ultima che nella sua parte “storica” fa registrare un numero di presenze giornaliere pari ormai a più di 1/3 dei suoi residenti (Comune di Venezia, Annuario del Turismo 2017).
[4] Una questione che ci riporta ancora una volta a ragionare sulle implicazioni morali e sui limiti dei modelli di sviluppo (Hirsch, 1976), ma attorno a cui, con riferimento alla turistificazione urbana, oggi nascono reti e gruppi di critica e protesta civile, culturale e politica (Colomb & Novy, 2017). È il caso, ad esempio, della rete internazionale SET – Sud Europa di fronte alla turistificazione (http//m.me/reteset).
[5] Si vedano, ad esempio, le statistiche fornite da Italia Nostra Venezia (https://www.italianostravenezia.org/statistiche-su-venezia/).
Rapporteur: Niccolò Panaino
Partecipanti al Tavolo:
1. Alessia Zabatino – Strategia Nazionale Aree Interne
2. Ilaria Lenzi – FAI
3. Dino Gavinelli – Università degli Studi di Milano
4. Simona Barranca – Viaggi e Miraggi
5. Massimiliano Vavassori – Touring Club Italiani
6. Giacomo Pozzi – Migrantour
7. Elena Muscarella – Fondazione ACRA
8. Tommaso Goisis – AirBnb
9. Gennaro Ascione – Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
10. Federico De Giuli – Presidente Gruppo Turistico Alberghiero, Unione industriale Torino
Abstract
Riprendendo le sollecitazioni del prof. Bricocoli, viene ripreso il tema del mainstream riflettendo sulle implicazioni connesse al macrotema del turismo; partendo dalla considerazione che l’Italia è la quinta destinazione turistica mondiale, si mette subito in chiaro come il turismo sia polarizzato su poche mete. Da subito la discussione si concentra sugli sforzi in grado di costruire delle alternative tali da intercettare altri mercati e distribuire le risorse del turismo.
Queste alternative si legano strettamente a movimenti che cercano di trovare soluzioni ai processi di touristification; oltre a richiamare alcuni casi interessanti – come i nomadi digitali ed il caso di Matera – uno dei problemi connessi al tema del turismo è rappresentato dalla gentrification che sta appiattendo il tessuto urbano, rendendo ingestibili i flussi di turismo. L’obiettivo è quello di trovare un equilibrio per cui una città vive di vita propria per turismo.
Chi è il turista? Il semplice city-user? A Milano era già in atto un processo di crescita per quanto riguarda il turismo?
Ragionando in termini glocal, prestando quindi attenzione alla dimensione globale e locale; Milano non è molto diversa dalle altre città, rappresentano un incrocio di five-sector. Nel passato Milano era la città delle fabbriche e quindi turismo aveva un impatto completamente diverso rispetto a quello attuale. Il modello Five-sector si lega al fenomeno del turistico ed è connesso per certi versi alla spettacolarizzazione del turismo. Si lavora sulla spettacolarizzazione nella dimensione della civitas, fondendo le dimensioni fisiche ed immateriali in una visione di Milano come “città da vendere”.
Riflettere sul turismo implica anche condurre un ragionamento sulla matrice neoliberista delle nuove politiche economiche, sulla corsa a dotarsi di servizi, sul ruolo del decisore politico, sulla stratificazione della governance in merito, sull’iniezione di denaro che il turismo provoca sulle città.
Identificazione 3 principali problematiche connesse alla questione chiave
1. Il turismo genera disuguaglianze socio-spaziali. Questione del “diritto alla città”, di chi c’era prima, ma anche dei nuovi abitanti. Vi è un delicato equilibrio tra la città degli abitanti e quella dei turisti. Il turismo che arricchisce e impoverisce contemporaneamente.
2. Turismo come una delle più importanti componenti degli attuali cicli urbani, ma che espone le città al rischio della totale dipendenza dell’economia locale dal settore turistico, ma anche a quello di eventuali eventi inattesi (strutturali o congiunturali, di tipo economico, politico, climatico, ambientale)
3. Gli attuali modelli di turismo mainstream pongono alcuni problemi di consapevolezza, di omologazione dell’offerta e di distorsione delle aspettative sul fronte della domanda.
Identificazione 3 principali raccomandazioni in relazione alle criticità identificate
1. Lavorare su una redistribuzione non monoculturale del turismo, usando la leva fiscale per mitigare le disuguaglianze socio-spaziali, ma anche attraverso un migliore controllo sulla qualità/sostenibilità del turismo. Ad esempio, bisognerebbe vincolare il gettito fiscale derivante delle tasse di soggiorno a politiche abitative, integrando politiche turistiche, politiche urbane e politiche sociali.
2. Bisogna riconsiderare processi che mirano solo a fare crescere il turismo in modo esponenziale (come fosse una panacea), ma favorire quelli che provano a cambiare il paradigma monoculturale, diversificando, destagionalizzando, redistribuendo i flussi, pianificando e programmando in modo intersettoriale.
3. Bisogna fare formazione sul fronte dell’offerta (qualificare l’offerta) ed educare su quello della domanda (responsabilizzare e rendere consapevole il turista del suo impatto sulle comunità e sui contesti).
Conclusioni
Vi sono condizioni strutturali e congiunturali per cui alcune città diventano delle mete turistiche. Al di là di tutti i modelli turistici mainstream, il turismo può essere e diventare una pratica sostenibile, attenta all’ambiente; in questo senso, sarebbe utile replicare l’esempio delle Isole della Regina Carlotta, nelle quali è stata avviata un’interessante sperimentazione per coloro che desiderano visitare il posto. Sono stati istituiti dei corsi di preparazione al turismo, in grado non solo di educare ma anche di sensibilizzare il turista al rispetto del luogo.
Partecipanti
Coordinatrice: Annarita Lapenna
Rapporteuse: Gloria Pessina
Partecipanti al Tavolo:
1. Dino Barra – Amici del Parco Trotter
2. Valeria Inguaggiato – La Cordata
3. Mario Paris – Politecnico di Milano
4. Nadia Zoller – Laboratorio di quartiere Mazzini, Unità programmi integrati di quartiere (Direzione casa, area politiche per l’affitto – Comune di Milano)
5. Marco Sorrentino – Amapola
6. Matteo Amadio – Biokip Labs
Abstract
Le esperienze presentate dai city makers che hanno preso parte al tavolo hanno messo in luce la declinazione di “accesso” intesa principalmente come “accesso alla casa” per fasce di popolazione che presentano vari tipi di fragilità. Alcuni partecipanti hanno riflettuto anche sul tema delle condizioni per garantire l’accesso a spazi pubblici. Il confronto si è articolato in tre momenti successivi: condivisione di un linguaggio comune, individuazione di alcuni nodi problematici e riconoscimento di alcune condizioni necessarie all’azione, immaginazione di alleanze possibili tra diversi tipi di soggetti. I partecipanti hanno trovato diversi punti di contatto tra le loro esperienze e hanno beneficiato della presenza di alcuni soggetti non Milanesi ma attivi anche a Milano che hanno apportato un punto di vista esterno alle dinamiche della città, mettendone in luce alcune contraddizioni.
CONOSCERSI E CONDIVIDERE DEFINIZIONI
Il tavolo è stato guidato dalla domanda “Che cosa significa ‘accesso’ per fare la città?” e per rendere operativa tale domanda è stato chiesto ai partecipanti di raccontare le proprie esperienze e di estrapolare da esse alcune parole chiave, riportate di seguito:
gratuità / mixité / inclusione sociale / coesione sociale / dimensione metropolitana / comprensione / innesco / visione / interdipendenza / presidio / rete / riqualificazione sociale / facilitazione di processi / conflitto come condizione per creare comunità / incontro / riconoscimento / partecipazione / scambio
FISSARE LE CONDIZIONI
1. Necessità di riconoscere il tema dell’accesso (alla casa) come tema centrale per le politiche a Milano. In assenza di tale riconoscimento il divario tra “la Milano che corre e la Milano che esplode” diventerà incolmabile;
2. Importanza di osservare le condizioni sia degli alloggi ERP che di quelli di edilizia privata, che talvolta presentano situazioni di degrado e conflitto anche superiori rispetto a quelle riscontrabili in quartieri ERP (es. Quartiere Satellite a Pioltello). Necessità di comprendere a fondo il ruolo di grandi proprietari (es. banche) che spesso non hanno interesse a promuovere interventi di manutenzione attiva;
3. Necessità di mobilitare risorse per metterle al servizio di un progetto anche a partire dal conflitto (es. Parco Trotter).
PREDISPORRE NUOVE ALLEANZE
1. A Milano non c’è una carenza di relazioni e alleanze tra diversi attori, ma è ancora assente un coordinamento efficace tra i vari soggetti: intorno a cosa ci si organizza, ci si focalizza e ci si mobilita? Per cosa?
2. Necessità di maggiore coraggio da parte di chi analizza i problemi di accesso alla casa (e alla città) e da parte dell’amministrazione pubblica, che talvolta lascia cadere questioni messe a fuoco in occasioni di confronto e relazioni tra vari attori pubblici, privati e del Terzo settore; questo approccio mette al centro il conflitto inteso come opportunità di conoscenza e di attivazione di relazioni intorno a temi specifici;
3. Necessità di riflettere sulle tensioni tra no profit e pubblico.
Conclusioni
Come emerso in particolare nella terza parte del tavolo, uno delle questioni principali rispetto al tema dell’accesso a Milano è rappresentata dalla necessità di rafforzamento della capacità di soggetti diversi ma attivi su temi analoghi (es. accesso alla casa) di cooperare per il raggiungimento di un obiettivo specifico, senza timore del conflitto. Anzi, scoprendone le potenzialità creative.
Partecipanti
Coordinatore: Anna Prat, Comune di Milano
Rapporteur: Niccolò Panaino
Partecipanti al Tavolo:
Simonetta Venosta, Fondazione Housing Sociale, associazione nata nel 2004 per realizzare progetti di edilizia sociale, costruire idea di abitare collaborativo che cerca di rispondere ad una comunità di partecipazione di protagonismo degli inquilini sul territorio.
1. Carla Chiappini – Giornalista sociale, spazio di esecuzione penale. Progetto carcere quartiere della città.
2. Laura Gaggini – Opera, spazi a cui tutti possano accedere.
3. Carla Sofia Galli – Cascinette, Mercato Comunale di Milano.
4. Nicola Capone – Filosofia del diritto, rapporto spazio e diritto, come diritto pubblico crea spazio, attivista beni comuni, ex asilo Filangieri
5. Mauro Lazzari – Parco agricolo dei Paduli, territorio agricolo nel salentino, sperimentazione sul paesaggio ha determinato gestione degli spazi pubblici.
6. Laura Basco – Parco agricolo dei Paduli, percorsi partecipativi
7. Franca Andreoni – AUSER, lavoro con gli anziani, sviluppo discorso dell’educazione permanente. Miglior qualità della vita nei luoghi migliori.
8. Alvise Campostrini – Associazione Le compagnie Malviste, teatro. Cittadini diventano protagonisti del proprio luogo, aprendolo, vivendolo.
10. Alessandro Manzella – UNICATT, intergenerazionalità. Monumento-movimento
Abstract
Per essere curato, lo spazio urbano deve essere condiviso, vissuto, abitato, multiculturale ed amato. Nel concetto di cura rientra quindi anche una componente sociale, alla quale viene demandato il compito di ricreare la cittadinanza attiva.
Riflettendo su un secondo aspetto di non secondaria importanza, i partecipanti concordano sul fatto di considerare lo spazio pubblico come bene comune nel momento in cui c’è comunità che se ne prende cura e si sente responsabile dello spazio stesso.
Dati i tanti, e diversi, territori che compongono il tessuto urbano, il compito dei citymaker è quello di farsi accompagnare dai cittadini per far emergere le culture del territorio, di un quartiere. Ci vuole tempo, ci vuole fiducia per poter includere tutti. La cura del territorio implica anche il concetto di tempo in quanto lo spazio non esiste senza tempo.
Dal punto di vista della governance, l’esigenza che emerge con forza è quella di dotarsi di strumenti funzionali alla trasformazione dello spazio; sfortunatamente l’amministrazione pubblica, non adeguandosi alle piccole realtà, stenta a coprire alcune fasce territoriali.
Lo spazio viene considerato come un laboratorio entro il quale sperimentare differenti opportunità; in quest’ottica vengono declinati i temi dell’inclusione, provando a trasformare cittadini non solo in individui come richiedenti di servizi, ma come soggetti che partecipano alle scelte del decisore politico.
CONOSCERSI E CONDIVIDERE DEFINIZIONI
1. “Che cosa significa “cura dello spazio” per fare la città?
La cura dello spazio implica una relazione biunivoca che trasforma i soggetti e gli spazi, i quali – entrando in contatto – si trasformano vicendevolmente.
FISSARE LE CONDIZIONI
1. Il principio di auto-costruzione produce scarti, vi sono delle regole per la città che i soggetti non vedono. Il tema è quello di riscrivere queste regole. Le norme sono più vecchie dello stato delle cose. Raccomandazione di elaborare norme che danno potere ai soggetti di fare.
2. Questione educativa, educare alla cura degli spazi attraverso la sperimentazione di una formazione permanente. C’è bisogno di tempo, pazienza per costruire gli spazi
3. Lo spazio pubblico è limitato, sia per alcune categorie di persone, ha dei limiti endogeni, sia per presenza proprietà privata. Proprietà privata destinata ad essere tutelata a funzione sociale.
PREDISPORRE NUOVE ALLEANZE
1. Una priorità è quella di aggiornare le norme sull’abitare, c’è una serie di spazi che non hanno regolamentazione, il bisogno è quello di configurare una forma giuridica adatta. Il tema della rigidità normativa.
2. Una seconda priorità riguarda l’ascolto dei gruppi informali, soggetti presenti ed attivi nell’occuparsi dello spazio urbano.
3. Infine, un’ultima priorità è quella di impostare una politica ecologica, capace di curare la comunità ed il senso d’identità. Il tema è la definizione dello spazio entro cui si creano le norme. Rispetto al tema del conflitto, devono essere configurati gli spazi in cui tutti gli attori della decisione pubblica possano confrontarsi al fine di produrre conflitti generativi.
Conclusioni
Lo spazio pubblico può essere curato da soggetti, formali ed informali, che già lo “abitano” ma che si scontrano con burocrazia e rigidità giuridiche ed amministrative, spesso desuete. Lo spazio pubblico è anche il luogo del conflitto che può essere generativo di trasformazioni e progettualità: in questo senso è il riflesso della società.
Partecipanti
Coordinatore: Nicola Basile
Rapporteur: Maddalena Sottocorno
Partecipanti al Tavolo:
1. Alessandro Verri – Consigliere del Municipio
2. Ornella Varcheri – Trillino Selvaggio
3. Piero Magri – Terre di Mezzo
4. Ivana Tretter – Opera liquida, teatro nel carcere di Opera.
5. Valeria Bonghi – Giacimenti Urbani (2014)
6. Silvio Tusi – Cooperativa “Tempo per l’infanzia”
7. Francesca del Vecchio – Amici del Parco Trotter
CONOSCERSI E CONDIVIDERE DEFINIZIONI
“Che cosa significa “educazione” per fare la città?
Promuovere continuità, nel tempo e nei luoghi dell’educazione (dalla scuola allo spazio pubblico).
Immaginare il futuro e attivare il desiderio dei giovani coinvolti nelle azioni educative.
Stimolare la partecipazione dei ragazzi e delle ragazze (rendere gli attori responsabili nel proprio contesto).
Rilanciare il tema della “comunità educante”.
Valorizzare le buone prassi educative, ovvero declinare nell’azione i pensieri.
Valorizzare l’apprendimento permanente.
Promuovere il diritto alla bellezza, inteso come concetto ampio e complesso (come l’essere orgogliosi del territorio in cui si vive, prendersi cura di esso).
FISSARE LE CONDIZIONI
Condizioni: arte come strumento con il quale promuovere l’educazione; competenze professionali che non possono essere sostituite dal volontariato; possibilità di condividere le azioni educative; competenza interculturale che nasce nell’esperienza; costruzione di reti; aprirsi ad altre associazioni e realtà territoriali.
Raccomandazioni: promuovere un modello di città decentrato; gestire le risorse economiche in maniera specifica (non sempre i bandi permettono di dare continuità alle iniziative; si potrebbero individuare delle “aree rosse cittadine” in cui spendere risorse specifiche); costruire alleanze con le associazioni territoriali e il volontariato.
Strumenti: promuovere dei bandi meno prescrittivi, ma piuttosto legati ai problemi e che si adattano a ciò che succede nei territori; promuovere gli strumenti pedagogici, come l’arte e la musica; rendere lo spazio pubblico sempre più fruibile in maniera diretta; promuovere dei “tavoli protetti” di confronto tra le realtà territoriali.
PREDISPORRE NUOVE ALLEANZE
1. Creare alleanze educative e culturali: non è solo questione di tecnica, ma di immaginazione della città, in termini di futuro per i ragazzi che partecipano alle attività educative.
Valorizzare e rendere continue le alleanze e le iniziative territoriali.
In questo si riconosce un ruolo importante per la Pubblica Amministrazione, nello sguardo che pone sulle piccole realtà, le altre istituzioni, i volontari e i cittadini nel loro complesso.
2. Favorire un’agilità istituzionale, nel senso di riuscire a costruire una sensibilità istituzionale e amministrativa che faciliti azioni complesse, che costruiscano interventi per abilitare il territorio.
3. Rimettere al centro la domanda pedagogica (evitare il “progettificio”) per recuperare l’attenzione sull’azione educativa e non spendere eccessive energie nella burocrazia, tenendo fortemente presente lo sguardo di ragazzi e delle ragazze.
Ri-plasmare l’ecosistema educativo delle città; dotarsi di strumenti per ridisegnare la complessità della città, in modo da leggerla e poter agire all’interno di essa in senso educativo.
Conclusioni
L’educazione non si esaurisce nell’ambito scolastico: occorre lavorare per stimolare e intercettare desideri, mettere in moto una comunità, aspirare alla bellezza. Per questo, fondamentali sono professionalità, nuove competenze e la costruzione di forti reti territoriali. Le istituzioni sono cruciali, ma devono essere agili e abilitanti, mettendo al centro le ragazze ed i ragazzi.
Partecipanti
Coordinatore: Lorenza Salati – Osun Wes, con progetti a Dresda, Mantova e Alzano Lombardo, si occupa di community economy, modelli sul fare impresa, mutuo aiuto e scambio tra imprenditori (ad es. il risanamento di un’ex raffineria a Mantova)
Rapporteur: Veronica Pecile – Fondazione Feltrinelli
Partecipanti al Tavolo:
1. Annibale D’Elia – Comune di Milano, direzione innovazione e imprenditorialità, si occupa di innovazione sociale e citymaking, supporto all’imprenditoria tradizionale, progetto Scuola nei quartieri che nasce dal ragionamento sul citymaking
2. Enzo Mingione – sociologo all’Università di Milano-Bicocca, esperto di welfare, ha condotto ricerca etnografica sull’imprenditoria sociale
3. Paolo Grossholz – ConfCommercio, esperto di politiche di sviluppo europee, ha collaborato con ANCI sull’applicazione delle direttive europee a livello locale
4. Francesca Maria Montemagno – ufficio dell’Assessore alla Partecipazione, Open Data e Cittadinanza Attiva del Comune di Milano, si è occupata di patti di collaborazione e regolamento sui beni comuni
5. Mauro Poletti – associazione Terra del Fuoco, laboratorio che offre preparazione agli artigiani non solo di eccellenza e su tutto il territorio, al fine di abolire il segreto artigiano, 6. svolgono corsi a adulti, anziani, disabili
7. Franco Gallerani – Cooperativa Sportiva Il Cigno
8. Claudio Calvaresi – Avanzi e Politecnico di Milano
9. Charley Dijop – Pakhuis de Zwijger, antropologa, si occupa di organizzazione di eventi all’interno di un’organizzazione indipendente focalizzata su co-creation e middle-entrepreneurship.
CONOSCERSI E CONDIVIDERE DEFINIZIONI
Come si fa la città con l’imprenditorialità?
Se partiamo dal presupposto che il valore economico deve portare con sé anche valore sociale da distribuire sui territori, l’imprenditore della città oggi – che include anche il citymaker – è colui che attraverso le sue attività economiche contribuisce al risanamento del tessuto sociale urbano, attraverso la messa in circolazione non solo di profitto, ma anche di conoscenze, saperi, reti.
FISSARE LE CONDIZIONI
1. Bisogna supportare l’importanza dell’artigianato, non solo di eccellenza ma il piccolo artigiano che è anche il tessuto sociale della città e dei quartieri.
2. È necessario uscire dal vecchio approccio funzionalista adottato dalle istituzioni, che divide i soggetti in imprese, terzo settore e altre categorie fisse. I citymakers in questo schema sono inclassificabili e sono tali non in base alla loro funzione ma alle loro intenzioni, anche quando queste fuoriescono dalle funzioni istituzionalizzate. È più opportuno adottare altre definizioni, più elastiche, come quella europea di “progettazione partecipata dal basso”.
3. È l’istituzione che deve promuovere il mix tra il pubblico e i cittadini bottom-up, ma allo stesso tempo gli spazi devono poter mantenere la propria autonomia.
4. L’imprenditorialità creativa è uno degli argini ai grandi progetti di riqualificazione che troppo spesso non hanno effetti redistributivi verso la cittadinanza.
PREDISPORRE NUOVE ALLEANZE
1. Bisognerà creare un ambiente istituzionale e amministrativo che agevoli i citymakers, intendendo con questi chiunque si ponga obiettivi di trasformazione pubblica. La parola d’ordine è “hacking”: trovare degli interstizi nelle regole esistenti per assicurare la loro attività anche quando non si incasella.
2. Per cambiare la cultura del fare città, troppo spesso burocratica e farraginosa, si dovrà agire innanzitutto sui tempi, sveltire le procedure, pur rispettando le norme. Così si sovverte il modello funzionalista descritto in precedenza. Allo stesso tempo, però, bisogna tenere conto delle diverse culture civiche nei diversi contesti urbani e definire “citymaking” territorio per territorio.
Conclusioni
Il tavolo si è soffermato sul rapporto fra imprenditoria e città e, in particolare, su quali siano le condizioni che permettono alla seconda di trarre benefici dalla prima. L’imprenditoria può produrre esternalità positive, può redistribuire parte del valore creato, contribuisce alla vitalità del tessuto sociale e fisico della città. Il citymaking è un paradigma nuovo entro il quale tutti i soggetti possono accordarsi e trovare i loro spazi di creatività, anche istituzionale.
Partecipanti
Coordinatore: Marianna D’Ovidio – Università di Bari
Rapporteur: Giorgia Sabbadin – Fondazione Feltrinelli
Partecipanti al Tavolo:
1. Franco Fornaroli – IBBY Italia
2. Pierluigi ledda – Reading Room
3. Sergio Giusti – CFP Bauer
4. Giusy Cherchia – Piano Quartieri, Comune di Milano
5. Francesco Maggiore – Fondazione Dioguardi
6. Fabrizio Bellomo – artista/regista
CONOSCERSI E CONDIVIDERE DEFINIZIONI
1. “Che cosa significa “culture (al plurale)” per fare la città?
Le culture sono diversità e acquisiscono un senso soltanto attraverso la condivisione, il rapporto con l’altro. È necessaria dunque l’umiltà simbolica da parte di chi deve fare cultura di non imporre una cultura dall’alto, perché è un meccanismo che provoca noia. Fare città con le culture significa creare uno snodo, un incrocio dove le persone possano aggregarsi attorno ad uno stesso interesse.
FISSARE LE CONDIZIONI
1. Evitare la violenza simbolica imponendo dall’alto cosa è cultura e cosa non lo è
2. Concepire le culture come diversità e come ricchezza
3. Mettere al centro le persone anziché gli oggetti in modo da offrire un luogo di aggregazione ed incontro alle persone che si trovano sul territorio
PREDISPORRE NUOVE ALLEANZE
1. Snellimento della burocrazia
2. Investire in progetti di formazione che sopperiscano all’attuale mancanza di preparazione per accedere ai bandi culturali
3. Le risorse economiche destinate ai progetti devono essere maggiormente libere e non direzionate soltanto a progetti che si occupano di determinate tematiche, perché ciò causa un appiattimento dell’offerta culturale.
Conclusioni
Le trasformazioni che hanno attraversato Milano così come molte altre città, impongono un ripensamento del concetto di cultura in termini più ampi e inclusivi. Esiste ed esisterà sempre una sovracultura o monocultura espressione della cultura dominante in termini di stili di vita, ma essa è affiancata da fermenti urbani underground che partono dal basso i quali possono essere facilitati nella loro emersione ma non vanno istituzionalizzati. Al centro, più che gli oggetti vanno messe le persone, i nuovi cittadini delle comunità urbane, ai quali offrire nuovi spazi di aggregazione rispondenti ai loro bisogni. Milano è una città in cui vi è una grande richiesta di contenuti culturali: l’operatore pubblico può facilitare il sorgere di iniziative culturali snellendo gli iter burocratici e attraverso specifici bandi, per accedere ai quali però spesso non vi è una formazione sufficientemente adeguata.
Approfondimenti: Report Naturescapes
NATURESCAPES:
Side event organizzato da Fondazione G. Feltrinelli in collaborazione con Fondazione Catella.
Il side event è stato immaginato come la prosecuzione di alcuni dei tavoli inaugurali sui temi dei beni comuni, dello spazio pubblico e dell’ecologia. Scopo del side-event è stato quello di alimentare il dibattito sul tema “Fare città con il verde”, in particolare discutendo le seguenti domande:
- Come possono essere immaginati spazi pubblici verdi resilienti e accoglienti? Come possono essere aperti a diverse popolazioni e usi?
- Quali relazioni possono essere immaginate tra attori pubblici, pratiche dal basso e attori privati impegnati nella promozione e gestione di spazi verdi pubblici?
L’evento, che si è svolto in parte presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e in parte presso la Fondazione Riccardo Catella è stato strutturato in tre principali momenti:
- Un workshop durante il quale si sono confrontati alcuni “city makers” di Milano e della Lombardia (associazioni, gruppi di comunità, attivisti etc.) impegnati nella promozione e gestione di spazi verdi inclusivi e alcuni “esperti” sul tema delle Nature Based Solutions coinvolti in due progetti europei (Horizon 2020 URBiNAT e Horizon 2020 CLEVER Cities). Il workshop si è concluso con le riflessioni di due professioniste, Antonella Bruzzese e Annarita Lapenna, impegnate su questi temi nell’ambito della ricerca accademica e nell’amministrazione pubblica;
- Una passeggiata aperta al pubblico da Fondazione Feltrinelli a Fondazione Catella attraverso il parco “Biblioteca degli alberi” guidata da Isabella Inti (architetto e Presidente dell’Associazione ADA Stecca), Filippo Fantini (architetto, Ingre) e Francesca Colombo (Fondazione Riccardo Catella). La passeggiata è stata l’occasione per far proseguire il confronto tra gli invitati al workshop e i cittadini attraverso l’osservazione di un caso rilevante. La camminata si è conclusa con una riflessione del filosofo Massimo Venturi Ferriolo sul tema #trasformareingiardinoilmondo.
- Una lezione aperta sul tema dei beni comuni e del verde a cura di Socrates Schouten (WAAG – Amsterdam).
Di seguito vengono restituiti i principali esiti della mattinata, concentrandosi in particolare sull’interazione tra i vari city makers che contribuiscono a “fare la città con il verde”.
Il workshop su invito “NATURESCAPES/Fare città con il verde. Beni comuni e aree verdi inclusive” si è svolto dalle 10 alle 11.30 presso la Sala della Peruta di Fondazione Feltrinelli e hanno partecipato le seguenti persone:
Davide Fassi Trentami In Verde
Silvio Anderloni Bosco in Città
Marco Sessa Giardini in Transito – Giardino Lea Garofalo
Giorgio Zerbinati Giardino San Faustino
Antonio Longo RE-Lambro
Lorenza Salati Bosco Post Industriale/R84 Multifactory Mantova
Cristian Zanelli, ABCittà (progetto BING)
Carla Sofia Galli, CasciNet
Martina Pislor Fondazione Riccardo Catella
Gonçalo Canto Moniz CES Universidade de Coimbra (Progetto H2020 – Urbinat)
Marco Acri, Universit y of Nova Gorica (Progetto H2020 – Urbinat)
Eugenio Morello Politecnico di Milano (Progetto H2020 – CLEVER Cities)
Israa Mahmoud Politecnico di Milano (Progetto H2020 – CLEVER Cities)
Antonella Bruzzese Assessore Urbanistica, Edilizia e Demanio, Spazio Pubblico e Arredo Urbano, Verde, Ambiente e Mobilità Municipio 3 Comune di Milano
Annarita Lapenna Politecnico di Milano
Il workshop è stato moderato da Maurizio Cilli, artista e architetto e da Gloria Pessina, assegnista di ricerca presso il Politecnico di Milano e collaboratrice presso Fondazione Feltrinelli. In primo luogo, si è deciso di stimolare il racconto di ogni esperienza, dando la parola ai nove city makers invitati e annotando alcune parole chiave emerse da ogni racconto. A valle della presentazione delle diverse pratiche sono state raccolte le riflessioni di Antonella Bruzzese e Annarita Lapenna. In seguito, i moderatori hanno invitato a reagire i partner di due progetti europei attivi sul tema delle Nature Based Solutions (H2020 – Urbinat; H2020 – CLEVER Cities).
Davide Fassi ha raccontato il progetto TréntaMi in Verde, sperimentazione di “living street” e mobilità lenta (30km/h) a Milano, ripercorrendo le tappe principali della sua genesi e il ruolo centrale di alcuni attori (Nolo Social District; Genitori Antismog; Ciclobby) nella promozione del progetto, a fronte di un budget irrisorio. Tra i temi di maggiore rilievo, Davide ha sottolineato l’azione di presidio svolta dai residenti e volontari delle associazioni coinvolte e il tentativo di svolgere un’azione di valutazione quantitativa e qualitativa dell’intervento, anche attraverso focus group e assemblee pubbliche. Il progetto è una sperimentazione temporanea autorizzata dal Comune di Milano, che ha sostenuto l’intervento anche fornendo la segnaletica stradale necessaria.
Silvio Anderloni, memoria storica del Bosco in Città e di numerose altre esperienze di promozione e gestione di parchi a Milano, ha fatto una precisazione fondamentale rispetto alle persone coinvolte in progetti come il Bosco in Città: non si tratterebbe di volontariato, bensì di partecipazione da parte di persone con competenze specifiche. Silvio ha poi raccontato del “giardiniere condotto”, ossia di una figura che nasce dalla partecipazione alle attività del Bosco in Città e mette a disposizione la propria esperienza e professionalità per sostenere progetti che ne hanno bisogno (es. Giardino Condiviso Lea Garofalo). Secondo Silvio l’amministrazione comunale dovrebbe mettere a disposizione una struttura operativa che possa sostenere questo tipo di esperienze e ricorda la necessità di impegnarsi in attività pratiche oltre che in confronti e workshop.
Il workshop in Sala della Peruta
Marco Sessa, promotore di uno dei primi giardini comunitari nati a Milano (Giardini in Transito – Giardino Lea Garofalo), racconta che il giardino è nato come un’occupazione e in un secondo momento è stato inserito all’interno della delibera sui giardini condivisi del Comune di Milano. Il Giardino è nato con l’idea di un’esperienza temporanea (di qui la denominazione di “Giardini in transito”), che nel tempo si è consolidata ed è diventata permanente grazie alla partecipazione di abitanti e di una rete di associazioni che si sono prese cura di quello spazio verde e di relazioni in un contesto urbano in cui scarseggiano esperienze di quella natura. Tra le difficoltà principali, Marco ricorda la questione dei finanziamenti, oltre che l’accettazione da parte degli abitanti locali del gesto di disobbedienza iniziale rispetto al regolamento di quell’area, di proprietà pubblica.
Giorgio Zerbinati, promotore del Giardino San Faustino (Milano, zona Ortica), nato in seguito alla delibera comunale sui giardini condivisi, che costituirebbe uno strumento perfetto per gestire piccole realtà (es. Isola Pepe Verde) ma potrebbe essere ancora affinato per realtà più grandi. Tra le difficoltà principali, Giorgio ricorda che la sostenibilità materiale del progetto è il principale nodo da sciogliere (costi di manutenzione del verde, etc.), specialmente nel caso di aree di estensione notevole come il Giardino San Faustino (2 ettari). L’area del giardino è di proprietà dell’Università Statale e il Comune sta sostenendo molto il progetto, ma secondo Giorgio questo non è sufficiente. La complessità del Giardino San Faustino consiste anche nel fatto che non sia una realtà singola ma composta da tante anime, a volte non sempre semplici da coordinare.
Antonio Longo ha raccontato il progetto Re-Lambro, vincitore di un bando di Fondazione Cariplo nel 2012 e sostenuto, oltre che dalla fondazione, anche da altri soggetti quali Ersaf, Comune di Milano, Legambiente e Politecnico di Milano. Antonio ha raccontato la genesi del progetto, che ha ottenuto un forte impulso dal Comitato (poi Associazione) Grande Parco Forlanini, sorto in seguito a un conflitto (2011/2012) sulle previsioni di uso dei suoli di quella che avrebbe dovuto essere una tra le principali “dorsali verdi” di Milano. Il Comitato propose di costruire un sistema di spazi aperti da viale Argonne all’Idroscalo e ottenne sostegno durante la Giunta Pisapia. Presto il Grande Parco Forlanini e le aree del Parco Lambro sono diventati spazi di progettualità pubblica, che hanno creato occasioni di riflessioni su forme insorgenti e di attivazione dello spazio pubblico. Nel 2015 è stato messo a punto un Masterplan per parte della valle del Lambro che coinvolge i comuni di Milano, Segrate e Peschiera. Anche l’Ente Parco Nord Milano è stato coinvolto nella gestione della attività di Re-Lambro, grazie alla sua ampia esperienza con un parco di scala vasta.
Lorenza Salati, fondatrice e socia di Osun WES s.r.l., racconta l’esperienza della R84 Multifactory di Mantova e del progetto del Bosco Post Industriale nato dall’immaginazione e dalle diverse competenze dei soci della multifactory, in seguito alla chiusura della raffineria di Mantova, all’interno della riserva naturale Parco del Mincio. La filosofia della multifactory è quella di un’associazione di imprenditori dove vigono mutuo aiuto, condivisione di competenze e conoscenze. Da lì è nata l’idea di creare un Bosco Post Industriale, dalla collaborazione tra un agronomo (proprietario di un’area confinante con la ex raffineria) e un architetto, entrambi soci della multifactory, e dal lavoro di alcuni tirocinanti. Il Bosco Post Industriale si è concretizzato in una prima passeggiata nell’area in occasione di un evento organizzato in collaborazione con il Politecnico di Milano nell’ambito del 1st World Forum on Urban Forests (Mantova, 2018) e attualmente è stato attivato un crowdfunding per sostenere la progettazione e realizzazione di un’area legata allo sport nei pressi della ex raffineria. R84 Multifactory sta coinvolgendo realtà economiche, cittadini e istituzioni locali, lavorando anche sul piano simbolico e artistico.
Cristian Zanelli di ABCittà ha raccontato l’esperienza del progetto BING (Binari Greco), uno dei vincitori del Bando alle Periferie 2018. ABCittà è capofila, ma al progetto prendono parte molte altre realtà milanesi. Il progetto prevede vari interventi, di tipo sociale, artistico, ambientale e sportivo, che avranno luogo intorno ai binari ferroviari a Greco. Tra le principali opere Cristian ha ricordato un orto-giardino condiviso, la realizzazione di murales sotto le arcate, la raccolta di immagini storiche del quartiere attraverso il coinvolgimento degli abitanti. Cristian ha osservato come questo progetto non stia incontrando conflitti e che tra le sfide principali ci siano quelle di abitare nel tempo e lavorare sul radicamento.
Carla Sofia Galli ha raccontato come CasciNet sia nata da un gruppo di amici che cercava un luogo dove immaginarsi come produttori e non solo consumatori ed ha trovato una cascina alle porte di Milano, in zona Ortica. CasciNet oggi si compone di un’impresa di promozione sociale e di un’impresa sociale di tipo agricolo ed è caratterizzata da una rilettura della tradizione in chiave contemporanea e collaborativa. All’interno degli spazi di CasciNet sono presenti anche orti comunitari, dove gli artisti hanno la possibilità di dialogare con gli agricoltori. CasciNet ha fatto un grosso investimento sulle relazioni.
Martina Pislor ha raccontato come la Fondazione Catella sia attiva da oltre dieci anni sul territorio milanese con progetti come l’attivazione culturale e la futura gestione del Parco Biblioteca degli Alberi che è stata oggetto della passeggiata nell’ambito della mattinata “NATURESCAPES. Fare città con il verde”. Oltre al Parco Biblioteca degli Alberi, Martina ha citato altri progetti tra cui il Giardino di Via de Castilla 28 e il progetto “MiColtivo, Orto a Scuola”, programma di educazione alimentare e ambientale dedicato ai bambini.
In seguito alla presentazione delle diverse pratiche, Antonella Bruzzese, (Assessore all’Urbanistica, Edilizia e Demanio, Spazio Pubblico e Arredo Urbano, Verde, Ambiente e Mobilità Municipio 3 Comune di Milano) e Annarita Lapenna (assegnista di ricerca presso il Politecnico di Milano) hanno reagito a partire dalle proprie esperienze di ricerca e professionali.
Le parole chiave annotate da Maurizio Cilli durante il workshop
Antonella Bruzzese ha elaborato alcune osservazioni e direzioni di lavoro a partire dalla presentazione delle diverse pratiche:
- l’importanza delle competenze e del ruolo che tanti soggetti competenti (architetti, botanici, etc.) hanno nell’attivare esperienze come quelle che sono state presentate. Dove non ci sono competenze c’è bisogno di supporto che deve partire dall’amministrazione pubblica;
- per favorire la relazione tra pratiche e istituzioni è fondamentale che i tecnici del comune siano competenti e che condividano una cultura dell’amministrazione aperta alle collaborazioni;
- è necessario il ruolo dei cittadini nella promozione e gestione di pratiche come quelle che sono state presentate a partire da un patto di fiducia tra di loro e con altri enti;
- perché i progetti abbiano successo e continuità è necessario stare in un luogo per un tempo lungo, coltivando relazioni di prossimità.
Annarita Lapenna ha aperto il suo contributo riflettendo sul titolo della mattinata, NATURESCAPE, che potrebbe essere letto anche come NaturESCAPE e che l’ha portata a pensare a un importante filosofo francese, Gilles Deleuze e in particolar modo al suo concetto di “linee di fuga”. Deleuze parlava di rizoma come sistema complesso composto da linee dove non ci sono punti o posizioni, come se ne trovano in una struttura, un albero, una radice. In questo sistema rizomatico, tra le diverse linee e connessioni, le linee di fuga sono azioni che scardinano l’organizzazione esistente spinte dal desiderio di una nuova organizzazione. In questo senso, le esperienze raccontate le sono sembrate essere di vari modi in cui la Natura in città diventa un insieme di linee di fuga per sperimentare nuove organizzazioni. Annarita ha elaborato tre note che riguardano la tipologia di questi spazi (come mai proprio gli spazi verdi diventano linee di fuga?); quello che succede in questi spazi (in che modo diventano linee di fuga?); il valore aggiunto che portano (quale strategia urbana?). Le esperienze presentate dai diversi city makers portano a una nuova lettura della città di Milano, che tende a superare la dicotomia centro/periferia. Queste trasformazioni sembrano essere capaci di generare una nuova geografia urbana e sono manifestazioni di nuove forme di organizzazioni tra soggetti diversi, che provano a rispondere alle esigenze emergenti della città, attraverso sforzi immaginativi inediti.
Al termine degli interventi di Antonella Bruzzese e Annarita Lapenna hanno preso la parola Eugenio Morello e Israa Mahmoud del Politecnico di Milano, partner del progetto H2020 CLEVER Cities, e Gonçalo Canto Moniz (CES Coimbra) e Marco Acri (University of Nova Gorica), partner del progetto H2020 URBiNAT, nella cui rete è compresa anche Fondazione Feltrinelli.
Eugenio e Israa hanno ricordato uno degli obiettivi principali del progetto H2020 CLEVER Cities, ossia il tentativo di sperimentare e diffondere le Nature Based Solutions (NBS) all’interno delle aree urbane europee, attivando alleanze intorno a progetti specifici. Eugenio e Israa definiscono le NBS come un concetto ampio di verde, che comprende anche dimensioni legate all’innovazione tecnologica e all’inclusione sociale. Il metodo adottato prevede il co-design, la co-costruzione e la co-gestione delle NBS insieme ai diversi partner e con la partecipazione dei cittadini. Nel caso di Milano, il progetto H2020 CLEVER Cities prevede tre azioni specifiche: realizzazione di un nuovo parco vicino a San Cristoforo (Giambellino); creazione di una nuova fermata con inserimento di elementi vegetali in corrispondenza della Stazione RFI Tibaldi; attivazione di un bando per la realizzazione di tetti verdi a Milano e in particolare a partire dal quartiere Giambellino. Tra le principali difficoltà, Israa e Eugenio individuano la conciliazione tra diversi interessi, la capacità di attraversare diverse scale urbane e la difficoltà di far coincidere i tempi del progetto con i tempi delle gare delle opere pubbliche.
A partire dalle sfide individuate da Israa e Eugenio e ripensando alle esperienze presentate nel corso della mattinata, Gonçalo Canto Moniz e Marco Acri sono intervenuti raccontando l’approccio alle NBS del progetto H2020 URBiNAT e le principali difficoltà che stanno incontrando. Secondo Gonçalo la principale sfida concettuale consiste nel far comprendere la portata sociale delle NBS dal punto di vista sociale, superando un approccio schiacciato solo sui temi della sostenibilità e della protezione della natura. In questo senso, la scelta di URBiNAT di concentrarsi su elementi lineari (“healty corridors”) che mettano a sistema diversi interventi puntuali di natura sociale, economica e ambientale si sta rivelando promettente. Marco riflette inoltre sulla grande opportunità fornita da questo progetto per uscire dalla riflessione accademica e lavorare su luoghi nei quali sono in corso da anni pratiche virtuose e coraggiose, in particolare all’interno di quartieri popolari. Una delle questioni principali incontrare nell’ambito del progetto URBiNAT è la rigenerazione degli spazi interstiziali e in questo senso le numerose pratiche presentate nel corso della mattinata del workshop “NATURESCAPES” hanno fornito spunti e presentato alcune assonanze con le pratiche individuate nelle città partner del progetto URBiNAT.
La mattinata è proseguita con una passeggiata aperta al pubblico da Fondazione Feltrinelli a Fondazione Catella, che si è aperta con un’introduzione da parte di Francesca Colombo (Fondazione Riccardo Catella) ed è proseguita con l’alternarsi delle voci di Isabella Inti (architetto e Presidente dell’Associazione ADA Stecca) e Filippo Fantini (architetto, Ingre). Gli architetti hanno fatto soffermare l’attenzione dei partecipanti sia su elementi storici, di cui è attualmente in corso il recupero (es. resti della cinta muraria in prossimità di Fondazione Feltrinelli), sia sulle nuove trasformazione della zona intorno a piazza Gae Aulenti. La camminata si è conclusa con una riflessione del filosofo Massimo Venturi Ferriolo sul tema #trasformareingiardinoilmondo. Al termine della mattinata è intervenuto Socrates Schouten (WAAG – Amsterdam) con una lezione aperta su beni comuni e aree verdi inclusive.