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Contributo dell’area di ricerca Futuro del lavoro nell’ambito di Jobless Society Forum 2019



Lo stato del lavoro

Con il Quarto Forum sul futuro del Lavoro Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha voluto proporre una riflessione sul ruolo dello Stato all’interno dei processi di sviluppo economico, e della sua responsabilità pubblica, nella promozione di un nuovo patto sociale.

L’appuntamento del 12 giugno è arrivato nel corso di giorni particolarmente complicati, in quella che è stata definita “La settimana nera dell’industria italiana”: “1.800 lavoratori licenziati via Facebook o Whatsapp da Shernon Holding, la società che gestiva i punti vendita di Mercatone Uno; la multinazionale olandese Unilever ha annunciato lo spostamento dalla produzione del dado Knorr in Portogallo con l’apertura della procedura di licenziamento collettivo di 76 dipendenti dello stabilimento di Sanguinetto, in provincia di Verona; Ex Ilva, Mittal annuncia cassa integrazione per 1.400; FCA ha annunciato la fine delle trattative per la fusione con Renault, un’operazione da 35 miliardi di euro che avrebbe portato alla nascita del terzo gruppo automobilistico mondiale dopo Volkswagen e Toyota; Whirpool ha deciso di interrompere la produzione di lavatrici di alta gamma e vuole cedere ad altri questa fabbrica: 412 addetti a casa”.

Come spiega Massimiliano Tarantino, Direttore della Fondazione Feltrinelli, nell’editoriale di apertura del Forum, «͔͔Il titolo del Jobless Society Forum 2019 “Lo Stato del lavoro” dice delle funzioni irrinunciabili che l’attore pubblico deve prendere su di sé:

  • La capacità di investire con visione progettuale, con uno sforzo di lungimiranza che consenta di orientare e determinare lo sviluppo economico;
  • La capacità di abilitare ciò che si muove a livello molecolare nella società civile, valorizzando il meglio di quel che l’innovazione sociale produce dal basso e facendone una leva di innovazione istituzionale;
  • La capacità di proteggere, salvaguardando quelle tutele minime che, pur nel complicarsi delle carriere lavorative, consentano di non essere esclusi dalla protezione sociale.


Ma lo Stato non può fare questo da solo: può ridisegnare il campo da gioco, riallestire lo spazio della concertazione tra istanze tra loro in conflitto, fissare regole che rendano equo il confronto. Ma poi serve che tutti i giocatori facciano la loro parte: che le imprese non siano solo orientate al profitto, ma producano esternalità positive anche in termini di welfare, tutela dei territori, sostegno alla domanda e allo sviluppo locale; che i sindacati e le parti sociali possano continuare a difendere il lavoro pur non rinunciando a uno sguardo di lungo periodo che li coinvolga nel rilancio dell’economia; che la società civile esprima risorse, qualità, talenti che cooperando contribuiscano al benessere condiviso dei territori.

In questo senso, il patto da stringere è un gioco al rialzo: è in gioco il futuro e la dignità di milioni di lavoratori e serve l’impegno di tutti»

 

Attorno a questa tensione hanno preso vita i lavori della prima sessione tematica della giornata dedicata all’analisi e alle proposte sullo “Stato che investe”, introdotti dalla lecture di Robert Wade, professore di Politica economica e dello sviluppo presso la London School of Economics and Political Science di Londra.

Wade apre con una citazione di Antonio Gramsci che fa riferimento all’ordine vecchio che sta morendo mentre non è chiaro quale sia il nuovo. Questo interregno che stiamo attraversando viene da Wade definito “Globotics”, il neologismo che tiene insieme il concetto di globalizzazione e quello di robots e che mette in luce quali effetti i due fenomeni stiano avendo sul capitalismo e sulla democrazia, su scala globale.  Una rivoluzione inarrestabile quella della espansione del mercato del lavoro su scala globale, molto più veloce di una vera e propria “rivoluzione industriale”, che non riguarda soltanto l’aumento esponenziale della possibilità di competere operando da remoto con un costo del lavoro molto variabile, ad esempio molto più basso in paesi asiatici, ma anche l’efficientamento progressivo dei software che sostituiscono il lavoro, prevalentemente nel settore dei trasporti, dei servizi finanziari e in quello sanitario. Quali scenari per i prossimi vent’anni? Robert Wade ce ne illustra due.

Uno in cui l’attore pubblico, decide di non intervenire attraverso le policy, mantenendo lo status quo, con conseguenze estremamente negative e il secondo in cui potremo evitare il peggio agendo per mano delle istituzioni. Il primo scenario lo stiamo vivendo: polarizzazione dei salari e del reddito; frequenti e diffusi problemi sanitari e sociali nelle società che progressivamente diventano più inique; e la drammatica – già esistente – erosione del sostegno pubblico. La tesi di Wade è che le tendenze politiche in una direzione illiberale – anti-democratica sono un contraccolpo contro le tendenze nei mercati del lavoro e la distribuzione del reddito; e che la combinazione di globalizzazione e intelligenza artificiale ha sostanzialmente intensificato queste tendenze.

D’altra parte l’Occidente, ha goduto di una crescente prosperità. Ma la classe media è stata “spremuta” verso il basso, e molti dei suoi rappresentanti si sentono spaventati e risentiti. Possono esprimere il loro risentimento sostenendo candidati che si presentano come “anti-establishment”, dalla parte del “popolo”, e che mirano ad indebolire i guardrail della democrazia – Stato di diritto, libera informazione, sistema giudiziario indipendente – al fine di rimanere al potere.

Politici e candidati che giustificano le loro azioni sostenendo che certe misure autoritarie siano necessario per continuare a difendere la gente dai loro nemici. Questo svuotamento della classe media ha conseguenze politiche polarizzanti: perché la classe media tende ad essere la forza stabilizzatrice in politica e l’architrave delle democrazie liberali.

Come reagire? Per garantire il secondo scenario, dobbiamo rendere più equa la distribuzione dei redditi: estendere la democrazia al sistema economico, in particolare nell’organizzazione del lavoro, può essere un potente correttivo. Bisognerebbe prestare minore attenzione alla crescita esclusiva del PIL: è invece una priorità garantire livelli elevati di occupazione e, contestualmente, livelli più bassi di disparità di reddito e ricchezza; andrebbe proposta la rappresentanza dei dipendenti negli organi aziendali o nei comitati retributivi, combinando questa misura con gli accordi per la partecipazione agli utili dei dipendenti; andrebbero promosse politiche attive del mercato del lavoro (Active labour market policies, ALMP), guardando alla Danimarca e altri Paesi scandinavi come esempi da seguire; si dovrebbe garantire l’istruzione terziaria non universitaria, incentrata in particolare sulla formazione alle professioni con meno probabilità di essere sostituite dall’Intelligenza artificiale o da forza lavoro a basso costo; un elemento chiave è inoltre l’educazione che consentirebbe di promuovere competenze trasversali come la creatività, l’empatia, il saper lavorare in gruppo. Questo perché oggi la principale direzione del cambiamento non riguarda più la sostituzione di persone che lavorano “con le loro mani” e la premiazione di coloro che lavorano “con le loro teste” (come nella rivoluzione ICT a partire dagli anni 70), quanto – grazie al digitale – la sostituzione di molti che lavorano con le loro teste e l’affermazione di coloro che lavorano “con il loro cuore” (per adottare una citazione dell’economista Richard Baldwin). In ultima istanza, Robert Wade ha argomentato a favore dell’adozione di un reddito di base universale (UBI).

All’intervento di Wade è seguito quello dell’economista Laura Pennacchi, che ha posto l’attenzione sugli aspetti della proposta, riconoscendosi negli elementi di scenario menzionati dall’analisi di Wade. Secondo Laura Pennacchi c’è bisogno di ritrovare l’obiettivo della piena e buona occupazione, abbandonato dai governi di tutto il mondo, anche quelli di centro-sinistra. Il presupposto è quello di riscoprire il ruolo dello Stato come “datore di lavoro”, così come stanno provando a fare i democratici americani di Bernie Sanders. La situazione è caratterizzata in modo lampante da decontribuzioni, riduzione del costo del lavoro, politiche monetarie della BCE che seppur salvifiche non hanno favorito la via degli investimenti. Politiche economiche indirette sono state insufficienti sia in Italia sia in Europa a far fronte a una crescita delle disuguaglianze, non solo in termini redistributivi ma anche allocativi, cioè che scaturiscono dalle strutture profonde e gli assetti dell’economia in generale, che vengono da politiche straordinarie come quelle del compromesso keynesiano. Continueremo ad avere globalmente una crescita ordinaria, ma drogata da strumenti straordinari come le bolle immobiliari, bancarie, finanziarie. Si avverte invece la necessità di creare grandi progetti collettivi, come fece Franklin Delano Roosvelt, tutti da inventare, all’interno dei quali creare strumenti adeguati a reimmaginare la società del lavoro. Il ruolo dello Stato come Employer of Last Resort, diventa centrale in questa prospettiva, contro quella che Alvin Hansen avrebbe definito la riluttanza del capitalismo all’investimento. Per ripoliticizzare il mondo è necessaria una riabilitazione della dimensione morale, recuperando in economia una forte critica all’utilitarismo.

Julie Froud, del collettivo di ricerca Foundational economy ha introdotto e sviluppato il tema dello “Stato che abilita”. In che modo lo Stato ha storicamente abilitato i cittadini? Attraverso la creazione di lavoro. Ma, secondo l’analisi di Julie Froud, questo approccio è parziale, o meglio “estendibile”. I lavori e i redditi sono importanti ma non sono sufficienti al benessere di una società, che è l’obiettivo dello Stato abilitante (e non la crescita economica). Al centro della riforma c’è la definanziarizzazione e la decarbonizzazione dell’economia, ma soprattutto i cittadini, con la loro identità e bisogni complessi, al centro della progettazione delle infrastrutture sociali. Nel Galles, ad esempio, recentemente c’è stata una legge che richiede di analizzare le policy (culturali, della salute etc.) in relazione al benessere delle generazioni future. Quali i driver del benessere? Principalmente il lavoro, ma di qualità e a supporto di tutti gli altri settori che contribuiscono al benessere come ad esempio i trasporti, l’approvvigionamento energetico, l’assistenza sanitaria, il verde, gli spazi pubblici. Sono beni che non sempre si possono comprare e non dovrebbero essere acquistabili, ma beni di proprietà e consumo collettivi.

Oltre ai momenti in plenaria, il Forum è stato animato dall’attività di otto tavoli tematici multi-attoriali ai quali hanno partecipato circa ottanta personalità tra accademici, ricercatori, professionisti e attivisti provenienti da tutta Italia.

I tavoli tematici dedicati a otto ambiti di riflessione distinti hanno individuato ipotesi di ricerca su cui vale la pena di impegnarsi per capire come riaffermare il ruolo dello Stato e rilanciarne le responsabilità pubbliche in quanto attore protagonista, e non residuale, delle trasformazioni del presente. Solo così sarà possibile promuovere politiche di lungo respiro, che riassegnino nuova centralità al lavoro all’interno dei processi democratici della società.

 

I tavoli di lavoro

 

Di seguito, i report dei tavoli di lavoro:

 

Partecipanti

Coordinatore: Nicolò Giangrande – Università del Salento

Rapporteur: Gianluca Scarano – Università Ca’ Foscari Venezia

Partecipanti al Tavolo:

1. Mario Benassi – Università degli Studi di Milano
2. Tullio Buccellato – Centro Studi Confindustria
3. Matteo Bugamelli – Banca d’Italia
4. Luigi Burroni – Università degli Studi di Firenze
5. Vincenzo Sabatino – Università Cattolica Milano
6. Matteo Tranchero – UC Berkeley

Abstract

Parlare del rapporto tra investimenti e produttività del lavoro in Italia vuol dire fare riferimento al processo di moderazione salariale e consolidamento fiscale che ha interessato il Paese dagli anni Novanta in poi. Un processo caratterizzato dal tentativo continuo di decentrare la contrattazione collettiva per legare una parte del salario agli obiettivi di produttività.
Si indagano le cause e le possibili vie di uscita che scaturiscono da una ridefinizione del perimetro d’azione dello Stato e dal suo ruolo attivo, recuperando risorse per lo sviluppo attraverso investimenti in innovazione, ricerca e infrastrutture.

Sintesi questioni chiave

Il dibattito sulle politiche industriali italiane ruota attorno all’annoso problema del progressivo declino che contraddistingue il Paese a partire dagli anni Novanta. La discussione rintraccia le numerose cause che vi hanno concorso, con differenze sostanziali per chi lo ritiene un problema che parte dal lato della domanda e chi dal lato dell’offerta.
Le questioni affrontate hanno chiamato in causa diversi aspetti: posizione geopolitica dell’Italia, moderazione salariale, consolidamento fiscale, costo del lavoro, ruolo dell’impresa pubblica, accesso al credito bancario.
A ciò si aggiungono anche ulteriori conseguenze riguardanti gli interventi sul fronte della conoscenza, con politiche di sostegno all’accesso universitario ancora frammentate a livello territoriale e deboli. A ciò si aggiunge la riduzione dei finanziamenti alle università e alla ricerca, principalmente a seguito della riforma Gelmini del 2010.

Identificazione principale questione chiave identificata dal tavolo

Le ricette che potrebbero favorire gli investimenti in infrastrutture e conoscenza utili a rilanciare le politiche industriali e dell’innovazione incontrano dei limiti dettati dalle politiche fiscali restrittive, da un cambio di paradigma del settore pubblico nella ricerca e nello sviluppo e, infine, da una struttura produttiva caratterizzata da imprese di piccole dimensioni.

Identificazione della proposta di azione e dei soggetti (preferibilmente in forma di “nuove alleanze”) che la promuovono e la portano avanti

Gli attori fondamentali che possono interagire su questo campo sono tre: pubblica amministrazione, università e imprese. Vi sono delle esperienze di politiche di connessione virtuose tra questi attori che finora sono emerse soltanto a livello locale. È necessario, quindi, rilanciare e sostenere le politiche industriali creando connessioni incentrate sia sulle conoscenze che sulle competenze in un sistema coordinato a livello nazionale – così da superare le divergenze territoriali, storicamente molto forti nel contesto italiano – e sostenute da una corposa politica di investimenti per infrastrutture materiali e immateriali.
Le moderne trasformazioni che riguardano l’economia richiedono anche infrastrutture digitali, che è necessario implementare a livello europeo e che chiamano in causa la condivisione dei flussi informativi. È il caso delle potenzialità recentemente dibattute relative ai cosiddetti big data, le cui politiche di regolazione sono prerogativa del settore privato. La digitalizzazione rappresenta una delle tendenze principali delle trasformazioni attualmente in corso nel sistema produttivo. Ciò ha portato all’elaborazione di diverse politiche industriali, ma si è trattato di interventi non organici e finanziati in maniera insufficiente. L’ultimo in ordine cronologico – il piano Industria 4.0 – è stata la risposta rispetto ad una domanda politica proveniente dal sistema produttivo italiano e, soprattutto, dai quei settori più esposti all’innovazione.
Nell’ultimo anno si è determinata a livello governativo una inversione di priorità di intervento che ha messo in secondo piano questo tipo di strategie, lasciando così meno spazio al tema delle politiche industriali.
Tutti i partecipanti hanno concordato sul fatto che nelle politiche industriali vanno evitate iniziative estemporanee e hanno indicato la necessità di procedere con una riorganizzazione delle stesse andando oltre lo schema Industria 4.0.

 

Partecipanti

Coordinatore: Federico Butera

Rapporteur: Niccolò Panaino (Fondazione Feltrinelli)

Partecipanti al Tavolo:

1. Marco Arrobbio – Leonardo
2. Federico Cabitza – Università degli Studi di Milano-Bicocca
3. Barbara Caputo – Politecnico di Torino
4. Lelio Demichelis – Università dell’Insubria
5. De Michelis Giorgio – Università degli Studi di Milano-Bicocca
6. Pasquale Lovino – Mylia
7. Germano Paini – Università degli Studi di Torino
8. Andrea Santangelo – Centro Nexa
9. Piero Scarpino – NTT Data

Al centro del dibattito sullo sviluppo delle applicazioni dell’informatica vi sono le questioni del “se” e del “quanto” queste saranno in grado di sostituire il lavoro umano in un futuro prossimo. Non sono poche le voci dai toni drammatici che preannunciano l’imminente sparizione di milioni di posti di lavoro, profetizzando la fine del lavoro e una jobless society. Queste previsioni da “robo-apocalypse” sono radicate nella task content literature che studia la cosiddetta man/machine allocation. Ma il lavoro è più della mansione, della collezione di compiti. Istituzioni autorevoli come la World Bank (2019) e la Comunità Europea (2019) si allontanano da questo approccio e affrontano il tema con un atteggiamento problematico, e anche le più prestigiose società di consulenza evitano toni apocalittici.
Sistemi capaci di elaborazione complessa dell’informazione possono disintermediare processi amministrativi facendo sparire posizioni lavorative, come, ad esempio, i cassieri dei negozi o gli impiegati di front office nelle banche. Inoltre, coniugando il crescere dei volumi di dati in Rete e la possibilità di renderli accessibili sul Cloud con lo sviluppo di algoritmi dotati di elevate capacità di apprendimento (learning e deep learning), si possono costruire sistemi digitali evolutivi adeguati a sostituire in posizioni di lavoro molto qualificati (i profili di cui più si parla, a questo proposito, sono i conduttori di autoveicoli, oppure gli specialisti della diagnosi medica).
In realtà è possibile contrapporre a queste tendenze la constatazione della crescita congiunta del valore prodotto dal lavoro. La produzione di prodotti e servizi che abbandona l’economia di scala, si riorienta verso le prestazioni individualizzate di crescente valore insieme al drammatico problema della sostenibilità ambientale e sociale, richiedono che il valore dei prodotti e dei servizi cresca, allungandone la vita e utilizzando lavoro di qualità, richiede una augmentation strategy che vede la tecnologia come abilitatore e la progettazione di ruoli complessi che assicurino la professionalizzazione di tutti.

Sintesi questioni chiave

Attualmente esiste un enorme vuoto legislativo rispetto all’innovazione tecnologica. Solo per citare un esempio, non c’è una regolamentazione sui droni. Da ciò emerge la necessità di governare i processi e non subirli. Abbiamo, inoltre, un problema legato alle competenze digitali. Bisogna cogliere la sfida. Quando si pensa alle competenze, c’è un divario enorme tra cittadini e data scientist. Il divario è misurabile in “0-100” fra persone normali e dottori di ricerca, all’interno del quale vi è lo strato drammatico dei lavoratori della pubblica amministrazione e delle imprese che non hanno alcun tipo di competenza informatica. Il punto è quindi quello di ripensare radicalmente il tema formazione, estendendo competenze a tutti i livelli ipotizzati da 0 (cittadini) a 100 (dottorati).
Bisogna istituire un nuovo patto sociale che abbia al centro la trasformazione digitale e i dati. Tale patto ha anche natura economica: l’individuo cede titolarità dei suoi dati a fronte di che?
La visione integrata di tecnologia, organizzazione e lavoro è un’operazione culturale che deve essere ancora compiuta. C’è un’ignoranza diffusa nel capire cosa c’è di buono nell’Intelligenza Artificiale (IA). Il passaggio che bisogna fare investe la dimensione istituzionale: che cosa si riesce a fare con l’IA? Come si aggiorna un programma di Information Technology Services (ITS)? Qual è la ricaduta sul sistema scolastico? Le informazioni vanno condivise. Dove l’IA semina qualcosa di utile nel sistema presente?
L’IA migliorerà il nostro lavoro perché ci libererà dalle mansioni ripetitive e ci consentirà di fare lavori più complessi e soddisfacenti. Come immettere persone di oltre 50 anni sul mercato del lavoro? Come fare in modo che le macchine, al posto di causarne il licenziamento, migliorino la vita dei lavoratori?
Una visione ristretta all’homo oeconomicus renderebbe disastrosa la situazione. L’azienda guarda al proprio business, il fatto che non ci sia sindacato per alcuni versi può rendere efficienti; tuttavia questa mancanza fa a pezzi la democrazia. Il sindacato non deve essere percepito come criticità. La spinta all’efficienza economica porta a rottura democratica. È importante che non vi siano regole che sblocchino sviluppo ma neanche un campo libero.

Identificazione principale questione chiave identificata dal tavolo

Andare oltre l’immaginario popolare catastrofico secondo cui l’intelligenza artificiale tende a distruggere il lavoro. A fronte di un’abbondanza di fake news sul tema, la riflessione sulle nuove tecnologie passa attraverso la conoscenza diffusa della estrema varietà di applicazioni e dei processi di concezione e applicazione.
Occorre elaborare modalità per affrontare e governare processi reali.
La sfida di dominare i processi di intelligenza artificiale è un traguardo raggiungibile grazie ad alcuni pilastri:
1. Creare valore economico e sociale con il lavoro
2. Rendere disponibile la conoscenza a tutti
3. Servire le persone
4. Progettare congiuntamente tecnologie, organizzazioni e lavoro
5. Regolamentazione flessibile
6. Formazione permanente
7. Sistema di valori di riferimento, che richiama una comune riflessione etica e culturale
8. Patto sociale

Identificazione della proposta di azione e dei soggetti (preferibilmente in forma di “nuove alleanze”) che la promuovono e la portano avanti

Le proposte: dalla previsione degli effetti alla progettazione congiunta di tecnologia, organizzazione, lavoro, formazione (oltre a quella di non far niente e assistere passivamente alla sostituzione dei compiti di lavoro da parte delle macchine.
Le proposte partono da un ribaltamento dell’attuale dibattito: dagli effetti delle tecnologie alla progettazione e sviluppo.
• Le nuove tecnologie sconvolgono l’esistente ma solo la progettazione disegnerà le nuove organizzazioni, imprese, città, società e soprattutto la qualità e quantità del lavoro.
• Il futuro del lavoro dipende in gran parte dalla innovazione nei contenuti del lavoro: dominio dei processi, risultati, cooperazione, competenze.
• La sviluppo dei nuovi ruoli, mestieri, professioni e l’apprendimento di nuove competenze è il campo della cooperazione attiva fra le imprese, istituzioni, sistema educativo, sindacati.
I livelli di azione da attivare sono quattro:
• Politiche industriali a livello europeo, nazionale e territoriale.
• Politiche sociali. Welfare, riconversione professionale, inclusione, formazione, diritti.
• Progettazione integrata di tecnologie, organizzazioni, lavoro a livello delle imprese, delle pubbliche amministrazioni, delle città.
• Partecipazione delle persone e degli stakeholders coinvolte nei processi d’innovazione: lavoratori e utenti con un ruolo propositivo di imprese, sindacati, sistema educativo.

 

Priorità problematiche

1) Mancanza di una visione strategica condivisa. Questo implica che è difficile scegliere quali mezzi per quali fini. Ciò significa che al legislatore manca una visione di sistema-Paese (esempio per eccellenza è la riforma Berlinguer del 1999); è altresì da notare una forte discontinuità nelle scelte di policy (una sorta di sovrapposizione degli interventi riformistici o dei tentativi di riforma) che produce confusione nell’attuale quadro statutario (per eccellenza in sistema della formazione professione post secondaria inferiore).

2) Questione ordinamentale. Questa si sostanzia sia nella segmentazione verticale (scuola primaria vs scuola media e superiore) che in quella orizzontale (differenze tra indirizzi, liceo, tecnico e professionale, e la formazione professionale di due/tre anni). Il rischio segregazione e/o ghetto sociale (i ragazzi upper-class scelgono il liceo, mentre coloro che provengono da contesti difficili scelgono giocoforza altre scuole).

3) Passaggio dall’esterno all’interno: standardizzazione vs destandardizzazione. In questo momento la didattica è fortemente standardizzata, gli ambienti di apprendimento sono quelli classici (nonostante ampi investimenti – vedi il piano nazionale digitale – il digitale che non incide in maniera significativa), la valutazione dello studente è basata sul modello studio-interrogazione-voto. Al contrario, il modello destandardizzato è quello che predilige l’esperienza ma con tutte le difficoltà di certificazione.

4) Spazi sociali di apprendimento. Sul piano dell’educazione formale, la scuola è l’ambiente deputato all’apprendimento; è necessario considerare che nel sistema sociale attuale vi sia uno spiccato policentrismo formativo. La socializzazione informale (che però ha effetti sull’educazione formale) oggi avviene nei quartieri e, in generale, in spazi diversi rispetto alle tradizionali aule scolastiche. Questa eterogeneità rappresenta una sfida che la scuola non può più evitare, nonostante i segnali siano quelli del mantenimento di una divaricazione.

5) Domanda/offerta che è dovuta anche ad un orientamento scolastico auto-centrato sul piano individuale (orientamento principalmente finalizzato alla scelta degli indirizzi di studio, scarsa attenzione alla costruzione ed al supporto delle possibili alternative di scelta), e che non tiene conto delle reali istanze del territorio (specialmente per quanto riguarda il mercato del lavoro). Manca una mappatura di quelle che sono le diverse esigenze. A questo punto si lega la scollatura della formazione professionale che di per sé è già una specie di rifugio dei ragazzi che sono alle seconda o terza opportunità, ma che appare scollegata dalle reali necessità professionale.

Proposte di azione

1) Centri poli-educativi per la fascia 0-6 anni nella convinzione – convalidata dalle ricerche – che le povertà educative si combattono dentro e fuori la scuola, partendo fin dall’età precoce. La defamilizzazione produce maggiore uguaglianza delle opportunità. Questi poli devono essere pensati e realizzati come poli effettivamente integrati. Reale partecipazione pluralistica delle diverse agenzie di policy (educative, sanitarie, infanzia): dimensione prismatica dell’approccio.

2) Buona cittadinanza e consapevolezza: presi d’insieme, permettono di tenere congiunte le life-skills con la consapevolezza dei vari attori coinvolti (sapersi orientare e collocare in un sistema complesso). Si tratta quindi di conciliare un livello minimo di competenze scolastiche che tutti dovrebbero avere, i combinazione con competenze di cittadinanza, con consapevolezza del sé e degli altri (in generale e/o come categorie specifiche). Vuol dire anche esperienza fatta di consapevolezza dell’esperienza stessa, secondo un modello esperienziale, non precostituito ma orientato, centrato sull’individuo e la sua autonomia.

3) Questione fondamentale è la governance. Si è parlato di un nuovo tessuto connettivo tra la scuola e i molti agenti del processo educativo (non si può lasciare la scuola da sola). Il passaggio da una governance top-down ad una orizzontale: non solo buoni lavoratori, ma profili in grado di affrontare le sfide della modernità. In questo senso diventa fondamentale l’interazione di policy o delle aree di policy: combinazione multipla degli attori di policy e anche degli attori istituzionali e non istituzionali. Si è parlato di equivalenza dei nodi: i soggetti diversi devono essere agganciati tra loro.

Partecipanti

Coordinatore: Filippo Barbera – Università di Torino e Collegio Carlo Alberto

Rapporteur: Danilo Aprigliano – Fondazione Feltrinelli
Partecipanti al Tavolo:

1. Maria Enrica Virgillito, Università Cattolica di Milano
2. Alessandro Coppola, Assistant Professor DAStU – Politecnico di Milano
3. Piergiorgio Ardeni, Presidente Istituto Cattaneo
4. Alessandro Borgialli, Head of Policies for Employability Adecco Group
5. Simona Bernasconi, Cooperativa Microcosmi

Abstract

Con particolare evidenza dopo la crisi economico-finanziaria del 2008, il tema delle diseguaglianze territoriali è tornato al centro del dibattito pubblico. Accanto a una rinnovata attenzione per i temi “classici” (es. divari regionali e nord-sud), sono emerse con forza alcune problematiche e domande di ricerca. Anzitutto, è cruciale chiedersi a quale livello è più utile misurare le diseguaglianze, sia rispetto alla scala spaziale, sia in riferimento al superamento delle tradizionali categorie di analisi (es. città-campagna; distanza dai servizi di cittadinanza; contrazione demografica; marginalità economica). In secondo luogo, accanto alle tradizionali diseguaglianze economiche e sociali, si stanno strutturando importanti diseguaglianze di riconoscimento, di non semplice misurazione ma importanti nello spiegare la diversa capacità di influenza tra “luoghi che contano” e “luoghi che non contano”. È poi di sostanziale importanza analizzare che rapporto sussiste tra dinamiche del capitalismo (es. ristrutturazione delle catene del valore; finanziarizzazione dell’economia; piattaforme; nuove tecnologie) e diseguaglianze territoriali. Infine, va affrontato il tema delle politiche pubbliche che, nel contempo, legittimino e destabilizzino le classi dirigenti locali e pongano le basi per un approccio strategico e mission-oriented (e non solo compensativo e/o redistributivo) di contrasto alle diseguaglianze territoriali.

Sintesi questioni chiave

Se guardiamo il Paese non dal centro ma dalle periferie e rinunciamo alle dicotomie classiche per adottare uno sguardo lucido e neutrale, quali disuguaglianze territoriali riusciamo a cogliere? In che modo possiamo classificarle? Siamo in grado di cogliere delle tendenze comuni a livello globale? E, soprattutto, in che modo si possono invertire certe tendenze?

Identificazione principale questione chiave identificata dal tavolo

La riflessione non si è concentrata solo su quei luoghi marginali perché distanti dai servizi, ma è stata anche riservata alle periferie urbane, non lontane dai servizi eppure caratterizzate dal disagio sociale ed economico e culturalmente distanti dai centri cittadini.

La geografia elettorale degli ultimi anni lo ha ormai reso evidente: esiste una polarizzazione che divide chi vive “nei centri che contano” – tendenzialmente aree urbane, cosmopolite, al centro delle innovazioni economiche – da chi, invece, vive nelle aree “marginali” o “in contrazione”, popolate dagli sconfitti della globalizzazione.

Queste disuguaglianze variano molto e si intersecano in maniera diversa a seconda dei territori. È possibile però individuare alcune linee comuni. Il voto, anche nel mondo, ha resuscitato fratture territoriali che credevamo superate. Le persone maggiormente colpite dall’aumento delle disuguaglianze, quelle cioè che si rivolgono ai movimenti populisti e nazionalisti, sono concentrate, dal punto di vista territoriale, nelle periferie, nelle piccole città e nelle vaste aree rurali di ogni paese, spesso con un’alimentazione reciproca del degrado sociale e del degrado ambientale.

Ad accomunare, dunque, periferie urbane e “aree interne” non è tanto la lontananza dai servizi ma quanto il lavoro e la loro impossibilità di immaginare un futuro e la sensazione che la propria condizione economica sia destinata alla precarietà.

Identificazione della proposta di azione e dei soggetti (preferibilmente in forma di “nuove alleanze”) che la promuovono e la portano avanti

Quali sono dunque la azioni che si possono intraprendere per superare questa polarizzazione? Innanzitutto partire dalla politica e dallo Stato. Il mercato da solo non può avviare dei processi di rigenerazione territoriale. A produrli e a governarli deve essere la politica.
Le “aree marginali”, poi, sono spesso prive di uno storytelling positivo, relegate nella “bruttezza” senza possibilità di riscatto. Le cosiddette “aree interne”, inoltre, sono spesso legate al mantenimento di una identità fondata su un passato mitico e sono chiuse all’innovazione.
Più che nelle città, l’innovazione dovrebbe riguardare le aree marginali. Come garantire il diritto alla posta o il diritto alla sanità in dei luoghi popolati da pochi abitanti e in cui i costi di gestione di un ufficio postale o di un ospedale sono insostenibili? Anche le classi dirigenti di queste aree non devono vivere le loro comunità in un’ottica di conservazione (se non passatista): «devo tenere in vita l’ospedale o l’ufficio postale». Devono, piuttosto, produrre innovazione sostenibile. Le élite, quasi sempre di provenienza urbana, devono scovare gli innovatori e dare loro spazio di azione perché possano rigenerare i loro territori.
Le regole, inoltre, vanno ripensate in modo da considerare e riguardare le specificità territoriali e i vari contesti socio-economici. Vanno disegnati strumenti regolativi nuovi pensati per il posto.
Ricostruire i luoghi di aggregazione e di partecipazione pubblica; rimediare alla “bruttezza”, estetica e non solo, dei luoghi marginali; offrire formazione e possibilità di crescita per attrarre e stimolare imprenditorialità. Possono essere queste alcune indicazioni di partenza per immaginare un’inversione di tendenza.

 

Partecipanti

Coordinatore: Annalisa Dordoni – Università degli Studi di Trento

Rapporteur: Giorgia Sabbadin

Partecipanti al Tavolo:

1. Barbara De Muro, LCA
2. Antonio Caterino, LCA
3. Monia Dardi, Fondazione Adecco per le Pari Opportunità
4. Rosy Musumeci, Università di Torino
5. Paola Maraone, Elle
6. Lucia Amorosi, Università degli Studi di Milano
7. Anna Fiscale, Progetto Quid
8. Marianna Filandri, Università di Torino
9. Lorenzo de Preto, Arcigay Trento
10. Annalisa Rosiello, Studio Legale Rosiello
11. Barbara Bello, Università degli Studi di Milano

Abstract

La società contemporanea, caratterizzata da processi di globalizzazione e accelerazione, pone necessariamente nuove sfide al mondo economico, alla politica nazionale e internazionale, agli enti pubblici e alle imprese. La valorizzazione di tutte le differenze (a titolo esemplificativo, di genere, di età, di orientamento e identità sessuale, di disabilità, etniche, culturali, religiose, economico-sociali), la promozione delle pari opportunità e la visione delle diversità come risorsa sono elementi imprescindibili per stare al passo con le attuali trasformazioni economiche e sociali. I procedimenti di implementazione delle strutture e delle modalità di direzione che diano valore alle diversità sono da intendersi come processi di apprendimento organizzativo, oltre che iniziative strategiche.

Sintesi questioni chiave

Le tematiche emerse sono la necessità di un approccio intersezionale e sistemico fondato sulla valorizzazione delle diversità, la conciliazione e work/life balance, la narrazione stereotipata su lavoratrici e lavoratori, una riflessione che non si limiti all’inserimento ma che tenga conto di un’inclusione per tutto il ciclo lavorativo in una prospettiva di valorizzazione delle differenze.
Una delle questioni chiave emerse è quella della valorizzazione e della formazione. Nelle considerazioni sul tema lavoro e diversity è necessario sottolineare l’importanza di un’ottica che sottolinei la valorizzazione delle differenze, poiché definire la diversità come risorsa contribuisce non solo all’inclusione ma ad una “apertura degli orizzonti” anche per l’impresa o l’ente. Nel caso dello Studio LCA è stata creata una libreria dell’innovazione, introducendo una modalità di formazione dei praticanti che prevede conoscenze trasversali, per valorizzare diverse competenze.
Un’altra questione chiave è inerente alla conciliazione dei tempi. Alcune università stanno promuovendo il “diritto alla disconnessione”, per garantire uno spazio, un momento in cui lavoratori e lavoratrici, più o meno vulnerabili, possano disconnettersi dal lavoro. L’over timing è un problema tutto italiano: in molti altri contesti chi prosegue a lavorare fuori orario lavorativo non è considerato più produttivo, ma una persona incapace di organizzare il lavoro. Un ulteriore dato interessante da tenere in considerazione è che la sindrome da burnout è stata recentemente inserita tra malattie riconosciute dall’OMS, e dunque da contrastare e anticipare.
Dalla discussione del Tavolo è emerso anche una questione culturale. Vi è una problematica di asimmetrie informative. È ad esempio ancora presente nella società italiana il pregiudizio che alcune categorie, persone di alcune etnie o di genere femminile, siano più portate a svolgere determinate mansioni, pregiudizio legato a stereotipi e fattori culturali.
Infine, in un contesto lavorativo in cui il modello tradizionale di protesta dello sciopero non funziona più, è opportuno chiedersi che forme di azione collettiva delle lavoratrici e dei lavoratori possono essere effettivamente utili per contrastare pregiudizi e per promuovere pari opportunità sostanziali e non solo formali. Si tratta di una formazione alla consapevolezza: educare ai diritti. Se questa stessa consapevolezza non tocca i vertici, il datore di lavoro, l’individual right strategy può riuscire solo in tempi molto lunghi, e solo se chi la intraprende ha le opportune risorse economiche e la possibilità di trovare un lavoro alternativo. La consapevolezza deve essere portata a vari livelli, del singolo così come dei vertici.

Identificazione principale questione chiave identificata dal tavolo

Nella società contemporanea vi è soprattutto un problema di asimmetria informativa, oltre che una grande difficoltà di integrare persone che hanno un livello basso di competenze, in un sistema lavorativo che procede a ritmo frenetico e in un momento di crisi. Gli strumenti nell’ambito dell’employability e delle pari opportunità sono ancora molto poco conosciuti. Un esempio è l’art.14 del D. Lgs. 276/03, attuazione della Legge 30 del 2003. La norma prevede per le aziende che superino i 15 dipendenti le assunzioni obbligatorie di lavoratori disabili, altrimenti non potranno partecipare a bandi pubblici e privati e saranno soggette a sanzioni, e inoltre le persone con disabilità possono essere assunte presso cooperative sociali nei confronti delle quali l’impresa si impegna ad affidare commesse di lavoro.
In sintesi, la questione è inscrivibile nell’ambito culturale, informativa e formativa. Se alcune imprese hanno già adottato codici etici e regolamenti per le pari opportunità, molti lavoratori e lavoratrici non ne sono a conoscenza: una buona prassi sarebbe fornirlo al lavoratore al momento dell’assunzione, la trasparenza è fondamentale per rendere diritti e dati accessibile a tutti. Un altro problema è dato dal fatto che non c’è una sanzione morale in caso di discriminazioni, mobbing e soprattutto molestie, ma viene spesso colpevolizzata la vittima. Vi è quindi la necessità non solo di superare false retoriche ma anche proporre nuove pratiche discorsive e promuovere l’informazione sui diritti. Esiste un’ampia normativa che tutela ad esempio le persone particolarmente vulnerabili e le persone con disabilità: a partire dall’art 2, art 3 (secondo comma) e art. 41 (secondo comma) della Costituzione, diverse norme ordinarie, art. 28 del Testo Unico, che indicano un elenco di lavoratori e lavoratrici, particolarmente esposti al rischio di infortunio, e quindi da proteggere in maniera peculiare.
Il tavolo ha rilevato diverse questioni su cui riflettere per identificare una proposta di azione, sia dal punto di vista aziendale che nel rapporto pubblico-privato. È emerso quanto sia necessario mantenere un approccio di tipo sistemico: una volta che le persone vengono incluse è importante fare formazione, sia nelle posizioni apicali che per dipendenti e gruppi di lavoro, e questo rientra nel campo del diversity management. Attraverso un processo condiviso tra pubblico, privato e sindacati, deve essere scardinato, in modalità sia top down che bottom up, il pregiudizio, ponendo al centro il soggetto da includere e promuovendo le buone prassi di impresa.

Identificazione della proposta di azione e dei soggetti (preferibilmente in forma di “nuove alleanze”) che la promuovono e la portano avanti

La proposta di azione è culturale, informativa e formativa a livello aziendale, sindacale e sociale. Informare in azienda si traduce nel promuovere codici etici e di condotta e organismi di tutela e garanzia di parità. Per citare un esempio emerso durante la discussione del Tavolo, nel contesto universitario molti lavoratori e lavoratrici non conoscono la figura della Consigliera di fiducia, esterna all’organizzazione a cui rivolgersi in caso di discriminazioni, molestie e mobbing, che garantisce il totale anonimato. Riflettere su questo significa anche chiedersi quali problematiche affrontare e quali sono gli strumenti più adatti in una data organizzazione. Nel settore pubblico questo avviene anche grazie all’istituzione dei CUG, Comitati Unici di Garanzia, che lavorano proprio su tutela e garanzia delle pari opportunità, strumenti che però sono spesso poco conosciuti. Ormai l’introduzione del diversity management è prescritta per legge, ma ancora questo è poco conosciuto, e la Finanziaria del 2018 ha sottolineato che le relazioni all’interno delle imprese devono rispettare le pari opportunità. Un altro elemento che contribuisce all’inclusione e che riguarda l’ambio formativo è il mentoring, nel caso dei contesti accademici, ad esempio, spesso docenti che formano futuri docenti non sono formati in questo senso.
L’approccio sistemico chiama anche in causa privato, pubblico e sindacati. L’azione si può esplicare in campagne informative sui diritti, promosse tramite un’alleanza tra enti locali e nazionali, sindacati e associazioni datoriali, per una grande campagna informativa di valorizzazione delle diversità come risorsa, da attuare mediante diversi strumenti. In particolare, la questa campagna, sia in azienda che fuori, può essere affrontata attraverso lo strumento del design thinking (tecnica che mira a tradurre in maniera semplice concetti complessi e ostici attraverso il design, tramite infografiche e immagini). Una buona pratica sul tema delle diversità e dell’equità da associare alla campagna informativa è anche la creazione una sorta di bollino di qualità, promosso a livello locale o nazionale, per valorizzare le buone prassi di impresa, come driver di marketing sociale. Ad esempio, a Bologna è stato istituito un albo delle aziende solidali. È infatti importante premiare le buone prassi e la promozione della parità sul lungo termine, in un’ottica di superamento della normativa vigente, per modificare la cultura aziendale e lavorativa e in generale le narrazioni sulle diversità, difficili da scalfire in ottica di inclusione.

Partecipanti

Coordinatore: Monica Bernardi

Rapporteur: Gabriele Solazzi
Partecipanti al Tavolo:

1. Stefano Daelli, Market Revolution
2. Ivana Pais, Università Cattolica di Milano
3. Davide Arcidiacono, Università Cattolica di Milano
4. Azzurra Spirito, SocialFare Torino
5. Luca Cantelli, Mercato Sonato Bologna
6. Paolo Campagnano, Impact Hub Trentino
7. Elena Musolino, Università di Bergamo
8. Saverio Werther Pechar, Agat
9. Elena Taverna, Labsus
10. Marco Marrone, Università di Venezia

Abstract

Megatrend di diversa natura (economica, tecnologica, sociale, ambientale) hanno favorito lo sviluppo di “nuove economie urbane”, ossia iniziative economiche che emergono come reazione a nuovi e vecchi bisogni e che costituiscono “un sottoinsieme nuovo di iniziative imprenditoriali […] per nulla virtuali, fortemente ancorate a luoghi e persone” (Agazzi, 2017); quelle che Annibale D’Elia (2018) definisce “esperienze ibride che nascono superando gli steccati tra profit e non profit e che si stanno dimostrando capaci di produrre valore economico e, nello stesso tempo, rafforzare la coesione sociale”. Parliamo di fabbricazione digitale (FabLab e makerspace), spazi di lavoro condiviso (coworking), manifattura digitale, incubatori per start up digitali e innovative, soluzioni di innovazione finanziaria (crowdfunding e microcredito), ma anche luoghi che si trasformano grazie ad idee imprenditoriali con finalità sociali, e nuove idee di business che attraverso l’ibridazione cercano di produrre valore economico generando al contempo valore sociale.
È chiara la profonda eterogeneità di queste soluzioni. Spesso si tratta di realtà anche molto piccole, che mixano innovazione e imprenditoria sociale, nuovo artigianato, commercio di prossimità… Hanno, inoltre, un’anima ibrida e coesiva, una stretta relazione con il territorio e una forte attenzione per la dimensione relazionale e le persone; si caratterizzano per ottime competenze digitali e l’ambizione di creare lavori densi di senso. Nonostante in potenza siano in grado di generare nuova occupazione, non sono esenti da rischi: spesso sono fragili, caratterizzate da molto entusiasmo ma poca esperienza imprenditoriale, affaticate dai regimi normativi vigenti, e col pericolo di generare esclusione anziché inclusione…

Sintesi questioni chiave

• Cosa possono fare le città per promuovere le “nuove economie urbane”, oggi e nel lungo periodo, affinché crescano in modo positivo sperimentando nuovi modelli di business e governance dal taglio inclusivo?
• In che modo è possibile connettere i diversi attori in gioco: imprese, scuole, università, enti locali, terzo settore, società civile e cittadini?
• Quali esempi virtuosi troviamo in questo senso tra le maggiori città e quali buone pratiche possono fungere da modello?

Identificazione principale questione chiave identificata dal tavolo

La diffusione di “nuove economie urbane” (NEU), potenzialmente in grado di produrre valore economico e rafforzare la coesione sociale, si scontra con la non integrazione delle politiche locali e al contempo con le fragilità a livello di competenze dei nuovi attori, compromettendone la sostenibilità economica e “umana”.
La questione principale è dunque duplice.
Da un lato l’attore pubblico deve ripensarsi e ristrutturarsi per poter comprendere, accogliere, metabolizzare e risistematizzare le istanze che arrivano dal territorio e che si configurano come NEU. Questo significa operare con una modalità maggiormente “olistica” al suo interno, avviando cioè un processo di innovazione istituzionale che attivi il dialogo e la collaborazione tra i diversi assessorati, connettendo e integrando la formulazione delle stesse politiche.
La natura ibrida delle NEU e le peculiarità che le contraddistinguono rendendole trasversali ai diversi settori dell’amministrazione e agli ambiti di competenza del governo urbano, richiede alla pubblica amministrazione un cambio di passo, e l’abilità di disegnare e formulare politiche maggiormente integrate. Nel farlo anche un approccio di policy-making collaborativo, basato sull’ascolto, il dialogo, il coinvolgimento degli attori locali, potrebbe essere un ulteriore strumento di ausilio per la definizione di politiche maggiormente integrate. La molteplicità ed eterogeneità degli attori coinvolti inoltre chiama la pubblica amministrazione a rivestire il ruolo di accompagnatore/piattaforma abilitante per consentire di ridisegnare le varie filiere (uscendo dalla visione settoriale).
Il secondo aspetto della questione si lega al tema delle fragilità di competenze che spesso caratterizza i promotori e attori diretti delle NEU. È importante che l’attore pubblico, così come i corpi intermedi, prevedano formule e modalità di supporto a tali realtà che non si fermino alla sola fase di startup ma siano in grado di svolgere una funzione di accompagnamento anche dopo il lancio delle attività.

Identificazione della proposta di azione e dei soggetti (preferibilmente in forma di “nuove alleanze”) che la promuovono e la portano avanti

Compito del governo urbano è comprendere quali aspetti di tali realtà è utile e importante facilitare, supportare, moltiplicare e amplificare, e definire come farlo, per favorirne la positiva diffusione. La letteratura sottolinea la crucialità delle alleanze pubblico-private, così come degli approcci di governance elicoidali (Iaione e De Nictolis, 2016); è inoltre fondamentale un approccio integrato e multidimensionale nella definizione delle politiche locali (Pike et al., 2006), l’integrazione tra attori e livelli di policy (educazione, innovazione, impresa…), nonché la capacità di dare valore al know how locale, di generare formule di sostegno alla nuova imprenditoria, di creare occasioni di sensibilizzazione e trasformazione culturale degli operatori economici e sociali (de Carvalho e van Winden, 2015).
Attori chiave nei processi sono:
– Pubblica amministrazione
– Privato: business tradizionali e nuovi
– Terzo settore
– Istituzioni cognitive (centri di ricerca e università)
– Cittadini e innovatori
– Fondazioni e soggetti erogatori

Rispetto alla Pubblica Amministrazione è fondamentale una ridefinizione del suo ruolo e delle sue modalità operative. Occorre partire da una visione chiara che superi la classica parzialità di sguardi e di operatività e che faccia da framework generale all’interno del quale identificare le sfide locali e rivedere la capacità di utilizzo delle fonti di finanziamento già in essere. In alcuni casi emergono ridondanze, in altre vuoti, per fronteggiare i quali è necessario che la Pubblica Amministrazione impari a sistematizzare da un lato e a facilitare i processi dall’altro.

La proposta di azione mira a favorire la convergenza di attori diversi, innovando le procedure (come i meccanismi di assegnazione di risorse e spazi) e operando una riflessione in materia di Public Procurement al fine di uscire dalla dimensione del bando per creare un canale di dialogo nuovo: l’operatività non deve solo derivare dal compiacimento dei parametri messi a bando piuttosto dev’essere messa in campo una modalità che permetta di procedere per prove e test.
Devono essere quindi favorite sperimentazione e ricerca, uscendo dalla norma, verificando puntualmente l’efficacia delle proposte che arrivano dal territorio. Fondamentale è quindi l’implementazione di processi di valutazione e monitoraggio che consentano di imparare dai fallimenti e mettere a sistema le buone pratiche: un processo di fine tuning che attualmente la PA si rifiuta di mettere in campo e la necessità di attivare metodologie standardizzate e scientifiche nelle procedure di monitoraggio e valutazione che se assenti le svuotano di significato.

Partecipanti

Rapporteur: Riccardo Emilio Chesta – Post-doctoral research fellow, Scuola Normale Superiore, Firenze – Ricercatore Area Lavoro Fondazione Feltrinelli
Partecipanti al Tavolo:

1. Gemma Scalise, Max Weber Post-doctoral research fellow, European University Institute, Firenze
2. Lorenzo Giasanti, Università di Milano Bicocca
3. Alessandro Gandini, Post-doctoral fellow, Sociology of Work, Università Statale di Milano
4. Fabrizio Mariosa, Federculture

Fabrizio Mariosa

Per ciò che concerne i settori del conflitto è da tenere presente come il conflitto in un’impresa di grandi dimensioni o di piccole dimensioni cambia.
Il conflitto sindacale deve essere pensato anche per realtà che non hanno un sindacato o dove non si manifestano delle condizioni di azione collettiva dei lavoratori così come le conosciamo in senso classico.
È ovvio che cambia il sindacato a seconda del settore, per cui la questione è vedere quali soluzioni sindacali si manifestano per diverse figure dipendenti in aziende piccole e subagenti. I subagenti sono intesi come in “rapporto di agenzia” o collaboratori di attività finanziaria.
Immediatamente la questione da porre, oltre a quella del conflitto (ma ad essa legata) è l’introduzione del welfare aziendale in quanto quando un’azienda è in espansione si deve porre il problema del benessere del lavoratore ed in un certo qual modo il conflitto anticipato dall’azienda. Così facendo, il welfare aziendale trasforma la busta paga in servizi e beni dell’azienda.
In sintesi, per questi due motivi – dimensioni e tipologia del settore da un lato, welfare aziendale dall’altro – il conflitto va ridefinito, ed è necessario uno sforzo sia da parte del sindacato sia dell’azienda.

Gemma Scalise

Il conflitto va ridefinito nella sua situazione economica attuale. Quello che vorrei discutere è l’importanza del livello territoriale dei sindacati, in quanto esiste una reale e tangibile dimensione regionale e urbana dei sindacati.
Questa si lega ad un’azione di policy-making locale.
Ad esempio, in Toscana, nei distretti industriali come a Prato, tradizionalmente il sindacato si inseriva in questioni di sviluppo locale. Al giorno d’oggi strumenti nuovi come i fondi europei, i fondi sociali europei, aiutano a finanziare progetti ed è lì che il sindacato si può inserire per svolgere un ruolo nella produzione sociale di ricchezza, quindi esercitando un ruolo critico in quello che è lo sviluppo territoriale

Lorenzo Giasanti

Quelle che io identifico come le necessità per ridefinire il conflitto sono essenzialmente quelle del rapporto tra individualizzazione contrattuale e modalità del rapporto di lavoro. Queste condizioni rischiano di investire anche il conflitto ridefinendolo.

La domanda che ci si pone è dunque: quali sono le condizioni per il conflitto collettivo? Detto questo bisogna anche sottolineare come le rappresentanze classiche non siano comunque sparite. I settori produttivi classici rimangono infatti ancora prevalenti, costituendo una grossa percentuale di quello che noi consideriamo forza lavoro. Lo sciopero – nella sua forma classica – resta dunque una modalità rilevante del conflitto per ampi settori dei lavoratori.

Alessandro Gandini

Il tema oggi, è, anche alla luce delle trasformazioni del lavoro e delle tecnologie, il fatto che il lavoro è andato via via frammentandosi. Le piattaforme digitali sono perciò oggi un grande laboratorio.
Tutto questo però avviene anche a livello pubblico o più generale all’interno di una cornice di riferimento che, quando parliamo di conflitto lo esprime quasi in forma archetipica… quella del conflitto aziendale tra un corpus di dipendenti stabili standard con contratti stabili versus un datore di lavoro o imprenditore.
Questo chiaramente è inteso come conflitto dentro l’azienda, o per usare una terminologia classica tra lavoro e capitale. Invece oggi il conflitto riguarda tutta una serie di tipologie non standard… allo stesso tempo lo lo sciopero è difficile per lavoratori precari…
Questo mi pare in sintesi il punto fondamentale: più che conflitto in senso classico, c’è da dire che per molte cose, i lavoratori non sembrano più di tanto interessati ad esprimerlo così come lo conoscevamo nell’ambiente tradizionale di lavoro. Oggi il conflitto risulta essere molto più individualizzato e questo è un tema che riguarda quindi come si costruiscono nuovi soggetti.
Stanno emergendo nuove forme di rappresentanza che si staccano dalla definizione tipica giuridica. Casi come quelli delle piattaforme digitali (Glovo, Foodora etc.) e quindi dei food-delivery riders che si rapportano agli algoritmi con nuove pratiche di socializzazione sono quindi innovative. Ad esempio, in presenza di un rating che aumentava il valore a seconda dei riders loggati, i riders hanno organizzato forme di log-off collettivi dalla piattaforme per fare arrivare all valore minimo di consegna i colleghi che lavoravano a determinati turni caratterizzati da alta disponibilità di lavoro (e quindi di retribuzione più bassa).

Sintesi della discussione

Dopo aver mostrato le diversità concettuali ed operative della questione del conflitto, in quanto esso si manifesta diversamente a seconda delle realtà produttive e dei settori di applicazione – che siano le piccole-medie imprese tipiche del modello produttivo italiano, o anche le più recenti ma paradigmatiche piattaforme digitali – si è passati a definire le nuove condizioni che ridefiniscono il conflitto in un’epoca di crescente frammentazione e di individualizzazione del rapporto di lavoro – a partire dal rapporto contrattuale ed oltre, sino alla condizione soggettiva.
La questione del conflitto si inserisce ovviamente in maniera trasversale all’interno della questione della ridefinizione delle relazioni d’impiego (employment relations) che riguarda sia il datore di lavoro – che assume oggi giorno nuove sfaccettature, integrando nuove figure intermedie nel management – dal dispatcher, al responsabile di progetto – che il sindacato – i cui contorni si ridefiniscono su nuovi fronti di lavoro – sino agli attori pubblici.
Immediatamente la questione del conflitto allora riguarda la rappresentanza del lavoro, ovvero il sindacato.
Per poter ricostruire un sindacato efficace bisogna tornare a coinvolgere gli attori istituzionali a partire da un livello di maggiore prossimità, quello locale ed urbano fino a quello regionale. L’esempio può vertere ancora sul lavoro tramite piattaforma.
Sono un esempio gli accordi che i vari comuni di Bologna, Firenze o anche Milano hanno fatto con per costruire un piano urbano per le piattaforme. Tutto ciò a prescindere dalla dimensione giuridica. L’importante è un riconoscimento forte di diritti ai lavoratori. Il caso del lavoro di piattaforma è di nuovo paradigmatico. Il caso di Uber e di Deliveroo a Londra capaci di interagire e superare l’aspetto settoriale, per porre il problema più in generale del “modello platform work” al di là del servizio o della mansione lavorativa differenziata per settore, è emblematico, capace di costruire un sindacato piattaforma slegato da aspetti di concertazione più istituzionalizzata per abbracciare un modello più di community organizing. Vero è che questo tipo di rappresentanza che nasce da dinamiche di mobilitazione è maggiormente tipico dei modelli neoliberali di tipo anglo-sassone dove i sindacati tradizionali erano più deboli. In questo caso, il tema della mobilitazione dal basso e la sua innovazione sono un effetto di un sistema di relazioni d’impiego debole dovuto sia al contesto di innovazione tecnologica che a quello del modello di relazione tra sindacati, imprese e istituzioni (sbilanciato nel caso inglese a favore dei privati).
In un’epoca di frammentazione del lavoro dovuta ad avvento di lavori di tipo autonomo, individualizzato anche reso possibile dall’avvento del digitale, dal lavoro a distanza, a quello a chiamata e attraverso la piattaforma, è necessario più che mai ricomporre la rappresentanza. Per questo, in un’epoca in cui le grandi fratture ideologiche tradizionali che avevano contraddistinto le diverse culture sindacali in Italia vengono meno – fratture legate alle culture politicamente maggioritarie, quella comunista e cattolica – sarebbe importante rivalutare l’unificazione del sindacato. Se in Italia si parla di unificazione, a livello internazionale sarebbe ancora più importante visto lo statuto multinazionale di numerosi attori privati, ricostruire un coordinamento dei sindacati a livello transnazionale in grado di leggere i diversi mutamenti e le interdipendenze tra vertenze locali e internazionali.
I social network sono uno spazio che numerosi lavoratori già usano per poter parlare e discutere delle condizioni di lavoro, anche se il tema della pubblicazione di contenuti sui social è immediatamente critico per i lavoratori e per l’impresa stessa. E’ tuttavia necessario che le tecnologie di comunicazione e le piattaforme fungano anche da luogo aggregante per istanze di rappresentanza e di conflittualità. Attraverso esse, il sindacato deve essere in grado di sfruttare nuovi spazi digitali, virtuali articolandoli per creare nuovi spazi comunitari, di aggregazione degli interessi e dei diritti e in grado di favorire il riconoscimento di nuove soggettività del lavoro.
Chiaramente, il tema dell’uso delle tecnologie prevede preliminarmente il tema della formazione tecnologica. Infatti, questo introduce subito la possibilità di tradurre la complessità di questioni di un’innovazione tecnologica che immediatamente ha effetti a livello sociale e sulle vite dei lavoratori in quanto questione della formazione specifica riguardante le tecnologie stesse. Non è possibile infatti parlare di innovazione tecnologica come di un processo che va da sé, privo di effetti inaspettati o conseguenze inattese. L’innovazione è di per sé intrinsecamente legata ad una condizione di complessità e di incertezza che non può quindi risultare calata dall’alto o affidata a pochi specialisti. È necessario un piano di socializzazione della conoscenza che si intreccia quindi con il più tradizionale tema dei diritti di informazione su cui si instaura dunque il reciproco riconoscimento e la fiducia nei luoghi di lavoro. Sulla base di tale contesto è quindi possibile riassumere ed identificare le questioni chiave riguardanti il conflitto e la sua espressione.

Sintesi delle tre questioni emerse nel corso della Sessione

● Ricomporre la frammentazione del lavoro tenendo presente le differenze a livello micro e macro riguardanti la struttura del Paese, anche attraverso una rinnovata unità tra i sindacati tradizionali e creando sinergie con nuove soggettività che attraversano i nuovi luoghi di lavoro creati dall’innovazione tecnologica e dal lavoro piattaforma;

● Adeguare le competenze degli attori in campo in modo da colmare i gap tecnologici presenti a livello di struttura d’impresa – trasparenza sulle decisioni, diritti di informazione, cogestione dell’innovazione – di sindacato e rappresentanze del lavoro – spazi di formazione dei lavoratori e dei rappresentanti sull’innovazione e le sue implicazioni;

● Guardare a livello generale la questione della regolazione delle piattaforme e del loro impatto a livello locale. Il livello istituzionale può e deve costruire spazi di confronto su buone pratiche a livello internazionale (ad es. piano urbano delle piattaforme elaborati in città come Seoul, Amsterdam, New York) che coinvolga tutti i portatori d’interesse e che possa così contribuire a rendere democratico e trasparente il tema della pianificazione e del governo dei mutamenti dovuti all’innovazione.

Proposta collettiva elaborata a partire dalla discussione e dalle tre questioni emerse

Riscoprire la nozione del conflitto in un contesto determinato da mutamenti rapidi dovuti ai flussi della globalizzazione e all’innovazione tecnologica significa per i diversi attori implicati (imprese, lavoratori, istituzioni) superare la frammentazione che mette a rischio la coesione sociale. Un’opera di ricomposizione deve superare la parzialità gli interessi corporativi per riuscire a costruire e riproporre un’idea di sindacato che dia centralità al lavoro riconoscendone la generalità. Per questo è un’ipotesi la riproposizione di un sindacato confederale unico, vista anche l’assenza di fratture ideologiche tradizionali figlie di un contesto di Guerra Fredda. Questo può avvenire anche modificando alcuni elementi di diritto presenti nel settore del commercio e della logistica dove si è assistito alla moltiplicazione dei contratti collettivi che hanno frammentato tanto le forme di riconoscimento giuridico quanto i diritti. A partire dall’Art. 39 della Costituzione della Repubblica Italiana andrebbero rivisti non solo i contratti ma il tema delle retribuzioni minime, questione che taglia trasversalmente imprese e sindacati.
Per ciò che concerne invece la questione delle competenze andrebbero create, in cooperazione con gli enti pubblici e con l’ausilio degli strumenti messi a disposizione dell’Unione Europea – fondi specifici per la cooperazione e per la formazione – figure ad hoc in grado di creare momenti di formazione ed apprendimento sull’innovazione in grado di favorire trasparenza, conoscenza rispetto alle implicazioni sociali della tecnologia e diritti di informazione.
A fianco di queste proposte si potrebbero creare esperienze di soft governance, ovvero dei tavoli dove gli attori potrebbero discutere di buone pratiche a livello internazionale e riguardo le opportunità di una loro applicazione ragionata rispetto al contesto territoriale.

Partecipanti

Coordinatore: Eleonora Perobelli
Rapporteur: Paola Piscitelli
Partecipanti al Tavolo:

1. Andrea Amato, Presidente e Fondatore Retake Milano
2. Pier Vito Antoniazzi, Presidente Cooperativa Città e Salute
3. Lorenzo Consalez, Socio presso Consalez Rossi Architetti Associati
4. Gabriele Mazzoletti, Fondatore JUUL
5. Rosario Cutuli, Presidente Cooperativa Olinda

Abstract

Diabete urbano, disturbi alimentari, sindromi da burnout (altrimenti detta “esaurimento da lavoro”), dipendenze da sostanze ma anche da strumenti, come quelli digitali nella nomofobia (la paura di non essere raggiungibile o non accedere ad internet con lo smartphone), like addiction (ovvero il continuo bisogno di accumulare likes sui social), vamping (l’abitudine ossessivo-compulsiva di trascorrere numerose ore notturne sui social): le patologie ed i malesseri delle economie urbane contemporanee hanno nomi nuovi. Il rapporto tra la città e i ritmi lavorativi urbani, analizzati dal punto di vista dei loro impatti sulla salute e sull’equilibrio psico-fisico sono le nuove frontiere della ricerca applicata alla co-creazione di risposte partecipate e inclusive.
Indagare la relazione tra i cambiamenti degli ambienti di vita, oggi prevalentemente urbani, e gli stili di vita pesantemente influenzati dai ritmi di un lavoro che si infiltra in ogni momento di vita, permette di comprendere lo stato di salute delle società contemporanee e individuare le azioni, praticate o da sviluppare, per curarle. Per farlo, occorre dare centralità a tutti quei soggetti e progetti tesi a contrastare le nuove diseguaglianze e a promuovere un approccio intersettoriale alla creazione di spazi, servizi e infrastrutture per la cura, la prevenzione, la promozione di stili di vita sani perché consapevoli delle trasformazioni che li riguardano.

Sintesi questioni chiave

Il tavolo ha discusso dello stato di salute della maggiore economia italiana, in particolare di salute in relazione allo spazio urbano.
Oggi il concetto di salute in un contesto metropolitano non è più riconducibile solo ad una dimensione prettamente sanitaria, ma comprende anche una dimensione relazionale e di benessere psico-fisico.
Si è condivisa, dunque, la necessità del superamento di una definizione unicamente sanitaria della salute per arrivare ad una più ampia di attivazione e benessere individuale e collettivo e di felicità pubblica, includendo le dimensioni sociali, ecologiche e fisiche.
Tale più ampia definizione della questione chiama in causa una rinnovata capacità d’intervento degli attori che vi sono coinvolti, a partire dal soggetto pubblico, e di lavoro integrato tra loro, investendo particolarmente sulle sinergie da sviluppare.

Identificazione principale questione chiave identificata dal tavolo

Facendo riferimento specifico al caso milanese, la questione chiave emersa riguarda la necessità di recuperare la centralità, persa, dell’attore pubblico quale regista dotato di una visione ben definita di sviluppo della città. A questo elemento ruotano attorno i seguenti aspetti:
– processi di coinvolgimento e co-progettazione delle iniziative con il terzo settore, seguiti da adeguato monitoraggio delle attività dei gestori dei servizi per non perdere di vista l’obiettivo degli stessi
– interventi coraggiosi dell’attore pubblico per la promozione della tutela della salute, anche attraverso azioni impositive che sradichino comportamenti dannosi (fumo, utilizzo dell’auto), …
– promozione della cultura degli spazi pubblici senza barriere (fisiche e cognitive), che attraverso la cura dei luoghi portino alla cura delle persone (ambiente degradato e degrado umano e viceversa)
– coinvolgimento attivo dei cittadini per superare lo stereotipo di periferie, lavorando per ricostruire legami e comunità in tutte le zone della città attraverso la dislocazione di servizi e la promozione e valorizzazione dell’attivismo locale

Identificazione della proposta di azione e dei soggetti (preferibilmente in forma di “nuove al-leanze”) che la promuovono e la portano avanti

Si sono individuate, dunque, le seguenti proposte di azione:

• Convergere verso l’idea di uno Stato abilitante, che assuma responsabilmente il ruolo di ascolto e difesa delle questioni più urgenti e di regia degli interventi di risposta da parte di:
– enti pubblici;
– terzo settore;
– associazionismo e reti anche de-strutturate di cittadini.

• Integrazione socio-sanitaria: orientare le risorse verso servizi che rispondano alla molteplicità dei bisogni delle società in trasformazione e che superino la tendenza all’istituzionalizzazione sanitaria, che perde di vista la dimensione più socio-relazionale dell’individuo. Questo signifi-ca promuovere forme di collaborazione nel settore sociosanitario che coinvolgano non solo gli attori istituzionali ma anche comunità e terzo settore, per andare incontro ai bisogni delle fa-sce più fragili della popolazione.

• Scelte pubbliche coraggiose quali la riduzione dei consumi a partire dagli abitudini e stili di vita che producono abuso di risorse individuali (incluso il tempo libero) a favore della cura delle relazioni e degli spazi, promuovendo comunità locali e di quartiere.